In questi giorni l’Iran festeggia, se così si può dire, un anno di proteste contro il velo obbligatorio segnato da arresti, violenze, stupri e dalla morte di Mahsa Jina Amini. E il governo degli ayatollah decide di rinforzare l'obbligo, minacciando il carcere anche per un ciuffo di capelli rimasto in vista o per un commento critico sui social media. La Francia intanto lo vieta, il velo, alle studentesse di origine araba che non potranno più indossare a scuola l’abito tradizionale dei paesi del Golfo. Ma a mostrare quanto sia contraddittorio il rapporto di governi e potere verso l’uso del velo da parte delle donne musulmane, arriva la notizia che anche l’Egitto ha deciso di vietarlo. Ma cosa sta succedendo? E perché si riaccendono le polemiche intorno a questo capo di vestiario che, come ha detto tempo fa ad Arabopolis la fumettista romana Takoua Ben Mohamed, «sembra essere l’unica cosa che i giornalisti vedono in me»?
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Il primo passo per cercare di fare un po’ di chiarezza è distinguere i tipi di velo a cui queste notizie fanno riferimento. In Iran non è obbligatorio il chador (il manto nero tipico del Paese, che copre la donna dalla testa ai piedi, capelli collo e orecchie compresi, lasciando scoperto solo il volto) ma lo hijab, foulard scuro o colorato che copre i capelli ma che (nei Paesi arabi moderati, dove non è obbligatorio) non necessariamente li nasconde del tutto (come fa invece lo khimar, un tubo che avvolge completamente testa e collo: un po’ come il cappuccio di una muta da sub).
L’abbigliamento vietato alle studentesse francesi è invece l’abaja, manto lungo fino ai piedi indossato su una tunica lunga che copre completamente braccia e caviglie: ricorda il vestito della Madonna, ed è un “outfit” di gran moda nei Paesi della penisola araba. Ad Abu Dhabi, per esempio, dove gli uomini nella vita quotidiana indossano una semplice tunica di cotone bianco, le giovani donne sfoggiano abaja civettuoli, aderenti, a volte fatti di seta trasparente e bordati di perline e paillettes.
Negli ultimi anni questo vestito si è diffuso anche in Europa e nel resto del mondo, negli ambienti più conservatori della diaspora araba. Lanciato da riviste di moda, firmato da stilisti arabi o della diaspora, l’abaja è il vestito simbolo della “modest fashion”: uno stile che nasconde forme e curve e che è diventato popolare anche in comunità diverse dal mondo islamico, come le donne ebree osservanti, in Israele e negli Usa, o quelle di comunità cristiane tradizionaliste, dove l’abbigliamento delle donne non è molto diverso da quello delle suore.
Veniamo all’Egitto. La nuova legge appena uscita, raccontata da Middle East Now e ripresa da Francesca Gnetti nella sua newsletter Mediorientale per Internazionale, vieta nelle scuole l’uso del niqab, che copre non solo testa e capelli ma anche il volto, lasciando scoperti gli occhi. A differenza dell’abaja, oltretutto, il niqab è fatto di stoffa nera, spessa, che nasconde completamente le forme del corpo: è un po’ una via di mezzo tra il chador iraniano e il burqa afgano (che nasconde anche gli occhi dietro un inserto traforato, però è colorato e di stoffa morbida). Il niqab copre il volto, e proprio per questo motivo è stato vietato nei luoghi pubblici egiziani per motivi di sicurezza simili a quelli che valgono in Occidente: una legge pressoché universale che impone di mostrare il viso e che conosce una sola, recente e macroscopica, eccezione nell’uso delle mascherine anti-covid.
Tre veli diversi quindi, e tre Stati diversi, per tre notizie che, fatta salva la complicazione di tutto quello che ha a che vedere con il velo (vedi il volume “Come il velo è diventato musulmano” di Bruno Nassim, edizioni Cortina), hanno un punto in comune: lo Stato che si sente in diritto di imporre alle donne come vestirsi. È un punto critico che mette in difficoltà i legislatori occidentale ma, evidentemente, anche quelli islamici. Con una grande differenza: perché in Occidente a entrare in crisi è il concetto di “comune senso del pudore” contro cui si sono battute decenni di femminismo: un concetto che giustifica divieti contro la nudità (anche maschile, vedi il divieto di camminare senza maglietta nel caldo estivo delle metropoli) ma non il suo opposto.
Se in Iran l'obbligo del velo è il simbolo dello schieramento antioccidentale (non dimentichiamo che lo scià di Persia, amatissimo da Europa e Usa, lo aveva vietato), in Egitto e in Francia il vero nemico è il peso sempre maggiore nella società dell’islam radicale, finanziato dai ricchissimi Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Questo islam è difficilmente compatibile non solo con le società occidentali ma anche con l’”islam mediterraneo” (non a caso il terrorismo islamista ha fatto più vittime nei paesi del Medio Oriente che in quelli occidentali). La diffusione di un abbigliamento “mortificante” per donne e soprattutto bambine è un campanello d’allarme, come ha notato Cinzia Sciuto in un post per Micromega: l’islam più coriaceo sta prendendo sempre più piede anche in Europa.
Ma allora che fare, vietare veli e mantelli, burqa e burkini? E cadere subito in contraddizione, perché nessun paese occidentale vorrebbe davvero fare una crociata contro il velo delle suore, le kippah degli ebrei o i turbanti dei sikh? O di impedire alle ricche turiste in abaja l'ingresso nelle boutique di lusso delle città d'arte italiane? E davvero qualcuno avrebbe il coraggio di chiedere al potentissimo dittatore saudita Mohammad Bin Salman di presentarsi in Occidente a capo scoperto?
Meglio allora, parafrasando il Marco Polo di Italo Calvino, «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo al fondamentalismo, non è fondamentalismo, e farlo durare, e dargli spazio». Può sembrare poco, ma è molto più di quello che hanno fatto finora i Paesi occidentali nei loro rapporti con il mondo arabo.