L'analisi
Sulla riforma della giustizia tributaria regna la confusione
Un anno dopo l’entrata in vigore, le nuove norme del settore restano un cantiere aperto. E fallisce l’obiettivo di far transitare nella “quinta” magistratura giudici delle altre quattro
Esattamente un anno fa, dopo l’approvazione del Parlamento a tempo di record, entrava in vigore la riforma della giustizia tributaria, funzionale al miglioramento della qualità delle sentenze e alla deflazione del contenzioso, essendo collegata all’ottenimento di un’importante tranche dei fondi del Pnrr.
Fin dall’Unità d’Italia, le Commissioni tributarie sono state vere e proprie eccezioni nell’ordinamento. Sfuggite alla generalizzata abolizione, con la storica legge del 1865, dei tribunali del contenzioso amministrativo degli Stati preunitari, sono sopravvissute persino alla Costituzione repubblicana, per effetto della lettura conservativa della Consulta. In questo contesto si è parlato da sempre della necessità di riformare gli assetti organizzativi della giurisdizione tributaria “onoraria”, oggettivamente inadeguati, ove tra i giudici sono contemplati persino geometri, ingegneri, periti agrari e architetti. Con la riforma è stato finalmente introdotto un ruolo autonomo e professionale di magistrati reclutati tramite concorso per esami e la facoltà per gli attuali onorari provenienti dalle altre magistrature (ordinaria, amministrativa, contabile e militare) di transitare definitivamente e a tempo pieno nella nuova giurisdizione speciale. Ciò al fine di migliorare la preparazione professionale sulla base della vocazione effettiva ed esclusiva della funzione. La professionalizzazione prevedeva anche un rafforzamento del Consiglio di presidenza (l’organo di autogoverno della magistratura) presso il quale venivano istituiti, tra l’altro, un nuovo Ufficio ispettivo e un nuovo Ufficio del massimario.
A un anno di distanza, non solo il cantiere della riforma è completamente aperto, ma regna sovrana una pericolosa confusione. L’obiettivo normativo che prevedeva il passaggio nella “quinta” magistratura di almeno 100 giudici provenienti dalle altre quattro è fallito con conseguenze gravi, visto che nel frattempo ci sono stati pensionamenti di un’importante quantità di giudici onorari.
Tant’è che già da qualche mese è stata anche sospesa la norma che prevedeva un progressivo prepensionamento dagli originari 75 anni. Allo stato, soltanto 27 giudici “professionali” hanno optato per la transizione (scarsamente incentivata e considerata poco conveniente) e con il diritto di fare marcia indietro, cosa che a quanto pare avverrà per molti di essi. Questo obiettivo fallito aveva peraltro prodotto la proroga del vecchio Consiglio di presidenza, visto che quattro dei nuovi componenti eletti dai togati dovevano essere riservati a ognuno dei gruppi di magistrati transitati dalle altre magistrature. Ma in primavera c’è stato l’ennesimo colpo di scena con una controriforma abbastanza inspiegabile che ha eliminato questa riserva, creando un ulteriore disincentivo al transito.
Intanto, per simmetria rispetto alle altre magistrature, il Parlamento ha eletto anzitempo i membri laici del Consiglio di presidenza, con una serie di ulteriori strascichi e polemiche sulla composizione. Per cui alle elezioni del prossimo 24 settembre (alle quali è chiamato come elettore anche chi scrive) è prevedibile che tutti gli eletti saranno giudici onorari che poi dovrebbero lavorare alacremente alla loro stessa sostituzione. Ma, nella migliore delle ipotesi, i primi 141 giudici professionali dovrebbero prendere servizio nel 2026, considerato che il primo concorso dovrebbe essere bandito nel corso del 2024. In ogni caso l’organico delle 546 unità previste dalla legge, laddove fossero rispettate tutte le tappe, cosa ardua, andrà a regime non prima del 2031. In buona sostanza, a un anno di distanza siamo al punto di partenza, anzi peggio, nel senso che si sarebbero potuti eleggere i nuovi togati già da mesi con una campagna elettorale basata sull’occasione storica di implementazione della nuova giurisdizione e che invece si è radicalizzata sulle criticità create da questa paradossale situazione. Tra le proposte elettorali infatti v’è quella di aprire, con un concorso “riservato” più o meno rigoroso, alla componente professionale degli onorari (avvocati, commercialisti, professori universitari e, come detto, geometri, ingegneri, periti agrari e architetti).
All’opposto c’è chi propone nuovi incentivi per il transito dei magistrati di carriera attribuendo loro i ruoli di vertice degli uffici. Tutto ciò avviene nel disinteresse del Parlamento che – dopo aver approvato una riforma addirittura a Camere sciolte e senza bisogno della solita delega al governo – è ricaduto negli errori di sempre senza percepire l’importanza cruciale del settore. Il rapporto fisco-contribuenti, infatti, è il fulcro del patto sociale ed è decisivo per la legittimazione delle stesse Istituzioni.
L’impressione è che mentre la riforma non è stata realizzata per oltre 160 anni per la contrapposizione dei tanti interessi di bottega, anzi di retrobottega, una volta entrata in vigore sia stata boicottata a causa dei medesimi interessi. Governo e opposizioni appaiono “quasi ignari” della situazione invece di dedicarsi seriamente alla tematica, a cominciare dalla necessaria autorevolezza dell’organo di autogoverno che ne dovrebbe rappresentare il vero motore. Siamo ancora una volta di fronte a una delle più tristi verità italiane, cristallizzata nelle celebri parole di Tancredi Falconeri nel “Gattopardo”: con la riforma epocale si è lasciato che tutto cambiasse perché poi in concreto nulla cambi.