La vicenda di Jenisch, nomade tra i vagabondi che Hitler voleva sterminare. E una lezione potente sul rispetto delle minoranze e sulle guerre. Nel nuovo film di Giorgio Diritti

"Il vento fa il suo giro” fu un film di Giorgio Diritti, uscito nel 2005, che ne designò il trionfo non solo presso i “cinephiles”, malgrado le traversie nella distribuzione. Un caso unico. Raccontava di Philippe, professore francese, un voglioso di silenzio, che con moglie e tre figli si installava, tra incomprensioni e incomunicabilità, in un paesino delle Alpi piemontesi, Chersogno: progettava di darsi alla pastorizia dopo aver faticato per anni attorno agli alambicchi della scienza. Giorgio aveva avuto come maestri Pupi Avati ed Ermanno Olmi, salì alla ribalta del cinema sulla quarantina. Alle spalle l’esperienza di fonico della band di Luca Carboni e le austere lezioni di Ermanno Olmi. Con “Lubo” Giorgio Diritti (nato a Bologna nel dicembre 1959), proiettato in concorso all’ottantesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, ha proposto un’opera che intreccia impetuosi sentimenti, umana pietà e memoria storica. L’eroe è uno strambo Jenisch, un nomade vagabondo, uno degli zingari che Hitler intendeva sterminare. È innamorato della moglie Marina e dei suoi tre bambini, è un estroso artista di strada. Lo spunto deriva da un libro di Mario Cavatore , “Il seminatore” (2004): una dolorosa ricerca che si svolge paradossalmente nella quieta e paciosa Svizzera. «Non c’è dubbio che il film nasce dal fascino che provo osservando le piccole comunità, nel piccolo si rispecchiano le inquietudini che si provano immaginando il futuro e i rischi che incombono sull’umanità», afferma Diritti: «Sono stato spinto dal senso dell’urgenza di far riflettere su questi scenari apocalittici. Per certi versi le stragi del mare che ci sconvolgono non derivano da una logica diversa da quella che investì gli “zingari bianchi”: alla base agisce l’incapacità di accettare l’altro o di essere indifferenti alla sua scomparsa. C’è un equilibrio del mondo difficile da gestire. Parla pure dei nostri giorni, dei bambini ucraini deportati, ad esempio».

 

Il regista Giorgio Diritti

 

Lubo, mobilitato nel 1939 per presidiare i confini, subisce a malincuore ordini ben lontani dal suo desiderio di vivere e di amare. Quando verrà a sapere esterrefatto che la moglie è morta perché si era opposta al sequestro dei tre figli, che sarebbero stati affidati ad un’organizzazione pubblica dal nome nobile e filantropico, “Pro Juventute”, concepita per sradicare il nomadismo, Lubo reagisce e si trasforma. La sua buffonesca eccitazione spettacolare diventa furioso ghigno vendicatore. Il giocoliere diventa un assassino e assume le vesti di un accanito seduttore, di un “seminatore”, di un “uomo macchina” che si sfrena in avventure sessuali collezionate sprezzantemente per assicurare continuità all’etnia dei perseguitati. Cambia identità, pur non rinunciando alla ricerca del vero che non trova. L’attende il carcere. La sua vicenda emana un respiro metaforico molteplice. Sarebbe restrittivo limitarsi a leggerla come denuncia del caso aberrante da cui prende le mosse. Vi si riflettono i temi dell’eugenetica e del genocidio, figure tragicamente tipiche del Novecento. 

 

Oggi continuano, magari assumendo le forme più disparate. La separazione tra ricchi e poveri, tra chi detiene il potere e chi ne soffre le violenze, è lo sbocco di una biopolitica che punta a governare direttamente il corpo, la sua nudità biologica appunto, dall’alto di chiuse “società castali” che ignorano l’umana solidarietà e si rifiutano di riconoscere l’altro. In questo quadro acquistò dalla fine dell’Ottocento peso strategico «il controllo giudiziario e medico delle perversioni, in nome di una protezione generale della società e della razza», ha scritto Michel Foucault. Non è esagerato qualificare il Programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (“Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse”) come genocidio, termine che comparve per la prima volta nel lessico giuridico nel 1944 nel volume del polacco Raphael Lemkin. Gli “allontanamenti” ammontarono, si calcola, a circa duemila. Sotto l’apparenza di un problema umanitario si nascondeva «il potere sovrano di decidere sulla nuda vita» (Agamben).

 

Con questo conturbante film Giorgio Diritti ha inserito ingredienti romanzeschi e ritmi del poliziesco, ma nella sostanza ha ribadito la sua fedeltà ad una poetica che può apparire arcaica. «Io credo che il cinema, passando dall’artigianato artistico, debba avere come suo primo fulcro di partenza ideale la “bottega”: essere lì, in bottega, un po’ come accadeva nel Rinascimento», afferma. Nel frastuono del festival “Ludo” ha immesso una fresca aura frizzante, una folata di ritorno. La sfida delle nuove tecnologie, intelligenza artificiale in testa, può essere una minaccia. Eppure occorrerà governarla. La bottega dovrà arricchirsi di nuovi attrezzi. «Temo che l’abuso delle tecnologie in arrivo – confida non rassegnato il regista– enfatizzi un esorbitante dominio della tecnica, che restringerebbe l’area della creatività, la fantasia dell’invenzione autoriale: e così si rischia di dover costruire “collages”, magari ben calibrati e confezionati, al fine di offrire attrazioni accattivanti per il grande pubblico, a scapito del pensiero critico, non curandosi d’invitare a cogliere in tante situazioni sintomi o aspettative, segni o angosce, che fanno tutt’uno con esperienze quotidiane. Si sta diffondendo un concetto di consumi anche in ambito culturale che tende a sminuire genialità e originalità personali, l’appassionata soggettività dell’umano». Non so dargli torto.