Spazi per nuovi saperi e presidi di democrazia: sono zone dove nascono relazioni e comunità. Oltre a essere veri e propri cantieri di futuro

La prima volta che presi un libro in biblioteca non si trattava di una vera e propria biblioteca, non era cioè un edificio, un insieme di sale o almeno un’unica sala piena di scaffali fino al soffitto: era un angolo della mia classe, la quinta elementare di un paese marino in provincia di Imperia, in cui due librerie attaccate al muro contenevano volumi dai quali noi alunni dovevamo scegliere quelli da leggere. A me non sembrava vero che si potessero avere gratis dei libri, che si potessero portare a casa, tenere per un mese intero, che se ne potesse prelevare anche uno al giorno. In casa mia non c’erano libri, soprattutto non ce n’erano nel 1987, l’anno in cui la mia famiglia emigrò dal Sud dello Stretto a un Nord dal paesaggio prodigiosamente simile, ma con i palazzi finiti: intonaco, vernice e tetti di tegole al posto degli spuntoni di ferro che dalle solette si ergevano al cielo.

 

Nel nostro minuscolo appartamento ligure non erano stati traslocati nemmeno i pochi libri che possedevamo a Reggio Calabria, e per me, che avevo sviluppato verso la lettura una forma di dipendenza fin da quando avevo imparato a decifrare lettere in successione, l’opportunità di accedere a una biblioteca, per quanto striminzita, era un sogno che si realizzava.Mi ricordo a nove anni stesa sulla branda superiore del letto a castello, in quella inferiore c’era mio fratello.

 

Leggevo La neve deve restare bianca: lo avevo scelto semplicemente perché non avevo mai visto la neve e con tutte le mie forze desideravo sfiorarla, calpestarla, assaggiarla. Da poco ho scoperto che si tratta di un classico per ragazzi del 1969, l’autore è Antoine Reboul. L’ho nominato durante un corso di scrittura e un’allieva me ne ha inviato una copia per farmi una sorpresa. Però non ho ancora avuto il coraggio di rileggerlo: e se poi non ritrovo più la stessa atmosfera? Il letto a castello era poggiato a una parete e separato con una tenda da quello dei miei genitori, che dormivano nella stessa stanza. Quel cantuccio umido, che mi faceva prudere il naso di allergia, che me lo tappava incagliandomi il respiro, era un rifugio, una specie di isolamento, era cadere nel buco come Alice e piombare in un altro mondo, in mille altri mondi, pieni di storie, numerose, infinite, così tante che ti illudevano di spiegarlo, il mondo.

 

Black Diamond, moderna estensione della Biblioteca Reale danese, a Copenhagen

 

Ma forse nell’ostinazione, nella ricorsività, nell’inesauribile bisogno umano di raccontare e indagare e ritornare ancora, da Omero in poi, dalla Bibbia in poi, sulle relazioni fra le persone, sulla relazione fra le persone e il mondo stesso, intravedevo già l’impossibilità di capire, il mistero insolubile che la massa dei libri tutti insieme, che le biblioteche, insomma, tradivano: il mistero della vita. Nascosto, imperscrutabile, inafferrabile; eppure forse, a leggerli tutti, i libri del mondo, i libri di tutte le biblioteche del pianeta e della Storia, a poterli assimilare, l’uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, forse sarebbe stato possibile svelarlo, quel mistero. Diventare Dio. Frequentare le biblioteche poteva farti diventare Dio. La prima volta che entrai in una biblioteca comunale ero con mia madre e mi affacciavo all’adolescenza. Le avevo chiesto chi fosse Che Guevara, l’avevo sentito nominare da Jovanotti ed era sulla maglietta del primo ragazzo che ho baciato. Mia madre non sapeva dirmi molto di lui, così lasciò mio padre da solo in negozio e mi portò in auto fino a Imperia, perché nel piccolo paese in cui eravamo immigrati la biblioteca non c’era. Fui io a parlare con la bibliotecaria, perché mia madre con quell’ambiente aveva meno dimestichezza di me. La bibliotecaria radunò diversi libri ed enciclopedie. Mia madre aspettò che consultassi il materiale e decidessi che cosa fotocopiare, che cosa portare a casa.

 

Non avevo mai riflettuto, prima di questa giornata che me ne dà l’occasione, su quel gesto di mia madre. È il gesto di chi ti consegna il mondo, anche se non lo maneggia bene. Il gesto di una persona che alle scuole medie si era entusiasmata per il latino – ma invano: nessuno ha preso in considerazione l’idea di farla studiare, bisognava guadagnarsi il pane. Il gesto di una che, lavorando in farmacia, si era appassionata alla medicina, il gesto di una donna che amava leggere e recitava a memoria brani dei Promessi Sposi o versi dell’Inferno dantesco, intere poesie di Carducci. Il gesto di qualcuno che ha l’umiltà di dire non lo so, ma esiste la possibilità di saperlo: basta cercare, leggere, studiare. Basta andare in una biblioteca, e alcune risposte salteranno fuori. E poi nasceranno altre domande, sempre nuove, destinate a rimanere inevase. Accompagnandomi in una biblioteca mia madre ha sancito, fra me e lei, una differenza che il futuro avrebbe allargato; non ne ha avuto paura, si è sacrificata di fronte all’eventualità che, studiando più di lei, da lei mi allontanassi, che mi trovassi un giorno, molto presto, a credere di non poter più imparare nulla da lei, malgrado fosse mia madre: lo ha accettato, mi ha lasciata andare. Ha accettato però anche di farsi trascinare nel mio universo. Avevo quindici quando cominciò la mia ossessione per Marguerite Duras, una delle più importanti, controverse e studiate scrittrici della letteratura francese. Lessi tutti i titoli presenti nella biblioteca di Imperia e, una volta che li ebbi finiti, mia madre mi portò in auto a quella di Sanremo, e a quella di Diano Marina, lasciando ancora mio padre da solo in negozio, con la scusa di un’urgenza scolastica, anche se sapeva benissimo che era soltanto il mio personale desiderio di approfondire un’autrice che mi aveva folgorata. Lo faceva perché era affascinata e fiera, e forse pure perché una femmina che insegue i suoi desideri era ciò che sperava diventassi. Lei, femmina come me, di desideri ne aveva realizzati così pochi.

 

Allora non c’era Internet, non c’era il sito Opac, andavi in una biblioteca e non sapevi se quell’autore fosse disponibile, e con quali e quanti libri, se fossero già stati dati in prestito, se fossero consultabili in sede o si potessero prelevare. Rischiava di rivelarsi un viaggio inutile, chilometri nel traffico dell’Aurelia percorsi a vuoto. Aprivo i cassetti dei casellari in cui erano contenute, in ordine alfabetico, le schede dei libri, e attraverso i codici riportati sopra li cercavo fra gli scaffali, passando fra i tavoli cui erano seduti ragazzi della mia età che studiavano in biblioteca. Io studiavo in cucina, mentre mia madre preparava da mangiare, e mi ascoltava ripetere le battaglie napoleoniche o illustrare ad alta voce i racconti gotici di Henry James: era lei, l’unica platea, lei che l’inglese non lo conosceva, a parte qualche parola imparata da me con la scusa che potesse servirle per i clienti stranieri. Più sai e più vali, mi diceva. E mi spezza il cuore l’idea che, sapendo poco, sentisse di non valere abbastanza. La biblioteca è il luogo in cui sono diventata adulta, se diventare adulti è abbandonare la mano di mia madre e trasformarmi in qualcuno che è altro da lei, così diverso che il rischio è di non riconoscerci più tra noi. La prima volta che marinai la scuola andai in biblioteca. Firmai il libretto delle giustificazioni imitando la calligrafia di mia madre e uscii due ore prima. Ero triste, arrabbiata, preoccupata, era successa una cosa che non sapevo affrontare, mi pareva troppo grande per i miei sedici anni. Così disertai l’aula e muovendomi in fretta fra la gente per strada, come chi scappa da un reato appena compiuto, arrivai in biblioteca.

 

Entrava dalle finestre una luce sommessa, di bonaccia, una luce da sopravvissuti che si allungava sul grande tavolo al quale mi ero seduta, e mi scaldava. In sala, un anziano sfogliava il giornale. Era stata una tana, la biblioteca di mattina, era stata di nuovo la dolcezza del letto a castello con un libro fra le mani: essere intoccabile, inscalfibile, anzi completamente immersa nella mia pena – ma non sola, perché circondata dai libri, da tutti quegli esseri umani che li avevano scritti, da tutti quegli esseri umani che li leggevano e rileggevano, una generazione dopo l’altra. Da quell’umanità senza scampo, come me, che aveva rivendicato nei libri il diritto di sfidare la morte, che aveva raccolto nei libri la propria Storia e l’aveva tramandata e aveva cercato di capire, di mettere ordine nel caos dell’esistenza, di tentare, attraverso la narrazione, di scovare un senso. Che dentro un libro ci fosse la salvezza me lo aveva insegnato il catechismo e, anche se il mio cattolicesimo aveva già cominciato a vacillare, io sentivo che ci sarebbe stata una rivelazione – impenetrabile, ma capace di ancorarmi a sé – nelle pagine dei libri.

 

Eccola, la mia fede. In quella biblioteca partecipavo a un rituale religioso, bastava sfilare un libro dalla mensola, toccare pagine che altri polpastrelli avevano toccato, sperare come gli altri avevano sperato: era la nostra comunione. [...] Nella labirintica Biblioteca di Babele immaginata da Jorge Luis Borges – ricordate? – ci sono uomini che si affannano alla ricerca del Libro che contiene la Verità Ultima. Io immagino invece che la verità non stia in un solo libro, ma nei libri presi tutti insieme, e che soltanto perché nessuno di noi potrà mai leggerli tutti la verità continuerà a sfuggirci. Solo Dio, se esistesse, o se ne avesse voglia, potrebbe leggere ciascuno dei libri che le biblioteche contengono. Forse per questo Borges stesso diceva di immaginare il Paradiso come una specie di biblioteca. Forse per questo, ogni volta che entro in una biblioteca, io mi sento in una specie di Paradiso.