I Dialoghi dell'Espresso
Frankie Hi Nrg Mc: «C'è scarsa educazione all’ascolto. Il pubblico si è abituato a non cercare sostanza»
«La parola è uno strumento di dissenso: e lo scopo fondamentale dell’arte è generare dissenso. Ma un tempo si parlava di ciò che accadeva fuori da sé, ora le canzoni esplorano solo la psiche dell’autore»
«Ma don Vito Corleone / Oggi è molto più vicino: sta seduto in Parlamento / È il momento/ Di sferrare un’offensiva terminale decisiva / Radicale distruttiva». È il primo febbraio 1992, la vigilia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando le rime di “Fight da faida” - sferzanti, colte, potenti, spietate, con quello scacciapensieri e quella strana filastrocca in siciliano – accendono i riflettori su mafie e corruzione e risuonano nelle radio underground da Torino a Palermo.
La canzone “spacca”, come dicono i rapper, spopola e consacra Frankie Hi-Nrg Mc come il profeta del rap politico italiano, punto di riferimento per diverse generazioni di artisti, Fabri Fibra fra tutti. Trent’anni dopo gli occhiali con la montatura nera e spessa assomigliano a quelli di allora, la barba è più lunga e brizzolata, ma la capacità di analizzare la realtà è identica. Per ripercorrere tutto dall’inizio Francesco Di Gesù, 54 anni, rapper, compositore, fotografo, conduttore televisivo e videomaker, ha scritto “Faccio la mia cosa” (Mondadori), il suo primo libro, un po’ autobiografia un po’ saggio sulle origini dell’hip hop, negli Stati Uniti, che poi è diventato un monologo teatrale che il rapper porta in giro per l’Italia. Anche in queste settimane, mentre l’hip hop compie mezzo secolo tra celebrazioni, tributi, memorie.
Frankie Hi Nrg Mc, l’hip hop festeggia i suoi primi cinquant’anni. Qual è il suo stato di salute?
«Già poter parlare di stato di salute dell’hip hop mi sembra una notizia straordinaria. I peggiori detrattori di questa cultura gli avevano dato massimo sei mesi di vita, invece è diventato il genere musicale più diffuso al mondo e quello che è riuscito a influenzare qualunque altro genere musicale, compresa la lirica».
Canzoni come “Fight da faida” o “Libri di sangue” hanno segnato l’epoca dell’impegno sociale e politico dei rapper, quasi trent’anni fa.
«In quegli anni io e tanti altri scegliemmo il rap come strumento per raccontare temi sociali, prima che politici. Non ero un attivista dei centri sociali ma avevo idee politiche abbastanza ben definite. Una cosa è sicura: il mio schieramento non era quello del neoliberismo imperante che si stava affacciando in maniera prepotente nei salotti. All’epoca c’era una bella sensibilità, uno dei pochi momenti in cui la sinistra, soprattutto quella militante, sembrava d’accordo con tutte le proprie componenti. Si intuiva un nuovo stile di fare politica, ovvero comperare i palazzi e il consenso delle persone attraverso una smaccata operazione mediatica, promossa dai nuovi padroni del vapore, anticipando quello che sarebbe successo con i social media. Non è un caso che Berlusconi fosse anche un magnate dell’universo calcistico: lo stile da tifoseria non evoluta ha caratterizzato finora l’approccio alla critica politica».
In quegli anni accadevano anche cose strane. Una volta collaborò con Vittorio Gassman.
«Un giorno torno a casa, trovo mia madre pallida che mi dice: “Ascolta la segreteria telefonica”. Trovo un messaggio: “Buongiorno, sono Vittorio Gassman, sto cercando Frankie Hi Nrg”. Voleva chiedermi di realizzare la musica per un brano di un suo spettacolo intitolato “Camper”, per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. La settimana dopo Gassman si presenta a un mio concerto al teatro Palladium di Roma. L’ho visto ascoltare la mia musica, dall’inizio alla fine del concerto, nel suo elegante cappotto di cammello. Alla fine si è alzato e mi ha applaudito. È stato un bel momento».
Le sue canzoni si sono sempre basate sull’importanza delle parole. A partire da “Verba manent”, il suo album di esordio, nel 1993. E come “Potere alla parola”, uno dei suoi brani di maggior successo.
«È importante mettere in parola il proprio pensiero. Quando una cosa si mette in parola inizia ufficialmente a esistere. Non è un caso che la Bibbia cominci con l’espressione “In principio era il verbo”, “E la luce fu”, perché nel nominarla appare la luce. E avviene anche a livello personale: quando hai problemi e vai dall’analista, lui non fa altro che spingerti a mettere in parola quello che senti. E così i problemi diventano reali, oggettivi, li riesci a vedere e affrontare. Il senso di quella canzone, comunque, è utilizzare la parola come strumento di dissenso, lo scopo fondamentale dell’arte. Generare dissenso».
Che potere ha la parola oggi nell’hip hop?
«Oggi esiste una scarsa educazione all’ascolto, una diffusa tendenza a non farsi capire, a mascherare la propria voce. I rapper agiscono sul nonsense, cercano formule a effetto, rime forzate con parole straniere, usano marche di abbigliamento o prodotti stranieri perché le rime con le consonanti vengono più facili. Il tutto rivolto a un pubblico abituato a cercare poca sostanza».
Nella trap come viene utilizzata la parola? Spesso prevalgono testi poco comprensibili, il suono a effetto viene prima del significato...
«Ammetto di non avere molti strumenti per comprendere la trap. Se la devo analizzare secondo il paradigma dei rapper anni Novanta mi viene da dire che c’è una una certa involuzione nella proposta del messaggio. Sembra quasi un ritorno al rap delle origini, dove si parla di se stessi in maniera molto reboante. Rispetto al passato, l’introspezione è assai più presente negli autori contemporanei. Un tempo si parlava sempre di ciò che accadeva fuori da sé, oggi le canzoni esplorano la psiche dell’autore, parlano di sentimenti. Negli anni Novanta non si parlava mai d’amore nelle canzoni, quando ci hanno provato i Sottotono li hanno mangiati vivi».
Come sottolinea Paola Zukar nel suo libro “Rap. Una storia italiana” (Baldini+Castoldi), esistono almeno cinquanta canzoni trap intitolate “disturbo da stress post-traumatico” registrate da giovani star della trap americana. È il segno di un disagio diffuso?
«Il disagio non è diffuso tra i trapper, ma nella società. Senza scomodare la pandemia, i nostri adolescenti vivono male, decisamente peggio di noi alla loro età. Noi spesso non siamo capaci di gestire le loro difficoltà: parlano molto di più di se stessi, di sentimenti. Considerano normale essere seguiti dal punto di vista psicologico, avere un analista, per noi figuriamoci. Oggi penso, porca miseria se avessi avuto l’analista a 15 anni probabilmente sarei cresciuto diversamente, sarei una persona diversa, forse più risolta, se avessi dato potere alla parola prima e nel senso più profondo del termine».
A proposito di parole, nei social impazza il fenomeno del dissing, rapper che fanno a gara di insulti reciproci. È una deriva inevitabile?
«Il dissing è un eccellente sostituto degli uffici stampa: attraverso gli insulti crei una notizia che si autoalimenta. A differenza delle notizie, tuttavia, che richiedono l’intervento di un ufficio stampa, il dissing è uno strumento molto pratico per far parlare di sé. Nel bene e nel male. Purché se ne parli».
Il brano “Quelli che benpensano”, manifesto di una generazione, risale al 1997. «Poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono/ Parton dal pratino e vanno fino in cielo/ Han più parabole sul tetto che San Marco nel Vangelo». Chi sono “quelli che benpensano” nel 2023?
«Tutti quelli che si sono sempre abbeverati a quel capezzolo e non hanno mai smesso. Quelli che desiderano il successo in quanto tale, che utilizzano la metrica del denaro per stabilire una classifica. Non mi riferisco necessariamente a una parte politica. Nella mia canzone, inoltre, quelli che benpensano sono quelli che non hanno queste ricchezze ma ambiscono ad averle. Invidiano e ammirano la ricchezza e la furbizia altrui».
Come vede l’Italia di oggi? Le piace o vorrebbe fuggire alle Maldive?
«Alle Maldive no, sarebbe tremendamente noioso. Però è vero che l’Italia è un Paese artatamente difficile: potrebbe essere tutto molto più semplice, ma essendo fondato su nepotismo, regalie, tutela degli interessi di parte, leggi ad personam è diventato sempre più difficile da tenere in piedi. Potrebbe andare molto meglio ma dovremmo cambiare tutti. Ma abbiamo capito che la rivoluzione non siamo capaci di farla».