Fenomeni sociali
La tecnologia ci ha tolto le emozioni: siamo nell’epoca della grande freddezza
Algidi, distaccati. Perennemente sulla difensiva. Rifiutiamo le relazioni. Ostentiamo indifferenza e noncuranza come status. E così sempre più scivoliamo nel narcisismo collettivo
Oggi si esplora il passaggio culturale dal “tengo famiglia” al “tengo freddezza”. Più di un blitz, meno di un ring fenomenologico. Prima, “la grande bellezza”, Roma, Jeb Gambardella, poi, la “grande stanchezza” post-Covid19. Ora è tempo della “grande freddezza”. Ci piace essere freddi, quasi ostentare freddezza assoluta. Senza il minimo sforzo analogico con gli sguardi di una Greta Garbo o Helmut Berger, se volessimo buttarla sull’immaginario cinematografico.
Primo flash.
A un certo punto di “Unica”, documentario-intervista recentemente disponibile sulla notissima piattaforma, Ilary Blasi getta un «tanta freddezza» parlando dell’interruzione della corrispondenza d’amorosi sensi pop con Francesco Totti. Non usa disillusione, apatia, tristezza, scorno. Ilary Blasi, a suo modo, come molte volte capita parlando d’altro e di altro discutendo introduce la parola chiave di questi tempi intricati, cupi, di crisi permanente: freddezza. All’improvviso: la sorpresa. Il tuffo nella conformismo infinito di una piccola e grande epifania del disagio affettivo contemporaneo a interrompere lo scazzo trascinato all’infinito sullo schermo. Incontenibile richiamo a essere freddi, fare i freddi. Che fa estremamente status. È la posa più ambita del costume nazionale. Mirabilia di chi annusa l’aria del tempo nuovo e freddo. Un sociale de-strutturato non può che essere incline a individuare una propria “freddezza di riferimento”.
Secondo flash.
«C’è tutto sull’Internet»; «Bisogna scaricare, bisogna vedere l’App». Sin qui, poco male. È il tono della risposta a far la differenza. In questo caso, si trattava di capire i nuovi percorsi di una linea del trasporto pubblico. Tono e gesto freddo, quasi robotico. Forse, l’utopia maggiormente avvicinabile da tutti si proietta nella ricerca di un possibile superamento di rapporti freddi. Segno del comando e della scalata sociale che passa attraverso una sensazione di fissità, rigidità. Qui, là. Altrove…Siamo tutti peccatori.
Un tempo prerogativa di modelle e amministratori delegati, stilisti, piloti di formula uno, chirurghi. Ora è freddo, almeno fa finta di esserlo, il controllare sul treno, una persona per un possibile dating, le concorrenti di Uomini e donne, quasi non vi fosse stato un tempo diverso, una scansione differente dei rapporti sociali. Freddezza non è semplice distacco, ma la negazione di ogni alterità. Tuttavia fa moda, a cominciare dal suo eleggersi ad archetipo nel tempo della chirurgia estetica globale. Che lavorando sui volumi della pelle restituisce un calco freddo di corpi ed espressioni. Colpa della tecnologia che erode profondità emotiva alla sfera interpersonale? Anche. Effetto perverso dell’anaffettività, quale requisito fondamentale nei rapporti di potere? “Fuochino”. La freddezza è quello che era il cinismo di corte del Settecento, così tanto per intenderci, “le relazioni pericolose” et similia. Il problema si pone quando tutti, ma proprio tutti vogliamo sembrare freddi, perché ci vogliono così: freddi e infelici.
Status più habitus e l’equazione della freddezza è risolta. Forma e sostanza algida, impenetrabile, inscalfibile, come dimostra la selva di “balayage” che ci circonda in metro, in autobus, in palestra.
“La grande freddezza”, moto a luogo dell’anima, sussulto represso, idea compressa in una prossemica precisa. Aliena da ogni orizzonte di possibilità e complicità. Quelli bravi parlerebbero di “blocco sistemico-relazionale”. A una lettura più immediata, il benevolo lettore faccia contro di andare con la mente a una giornata in un centro commerciale, in un negozio di elettronica e tecnologia, in un qualsiasi outlet per ricordare la prima volta in cui è incappato nella “grande freddezza”. Che viene da lontano. La quale, prima, ha toccato da vicino il commercio e la finanza, poi, si è riversata, quale frutto avvelenato post-pandemico nella vita quotidiana. Luogo e tempo dell’impossibilità, della fuga, del rigetto, della freddezza, spesso e volentieri, calibrata ed esibita.
Impossibile non pensarci, far finta di niente di fronte a un universo simbolico e metaforico che non riconosciamo più. Che sia stretto il vivere quotidiano e cittadino con le sue file anonime, la sua arrogante impazienza nel procedere per strada, lo stanco sciamare in direzione dell’inutilità? Trovare risposta a una semplice richiesta d’informazione è una delle prove più difficili che ci possa capitare. Siamo diventati bravissimi nel mettere in mezzo cose e scuse. L’importante è evitare contatti, frasi, parole. Qui non si sbaglia più. In nome e per conto di una paura di dare fiducia e disponibilità. Facciamo a gara nel mostrarci algidi, impenetrabili, afasici. Guai a mostrare la benché minima espressione. Fosse anche e solo cortesia di facciata. Al di là di tutto e dentro tutto, “la grande freddezza”. Non è un omaggio di facciata a Paolo Sorrentino. Nemmeno qualcosa di simile alla distanza, al distacco. Il grande lascito di ogni giorno è conservato dalla grande freddezza dei rapporti sociali e non è colpa del non telefonarsi, parlarsi più. Sembra quasi una passione incontrollata e incontrollabile che assale ogni novità, trasformazione. Per quanto ammantata d’incognite o sorprese. La distanza è una nota di merito, anche di metodo che aiuta, se non proprio conforta, ma la freddezza egoriferita e tanto, ma tanto narcisistica è un macroscopico problema sociale. Una serie d’istantanee apatiche in posta, mentre facciamo la spesa, saliamo e scendiamo da un mezzo pubblico. Il succo di questo tempo ha il corpo e la recitazione alta di Eleonora Duse nell’aprile malato che continua tutto l’anno. Gratta il turbamento e il disorientamento di una quotidianità che non sa più tramutarsi in prospettiva, risucchiata da slogan permanenti, fra spiriti animali e interventi dall’alto. Tutti a cercare di capire le risposte, non riusciamo più a porre le domande originarie sul perché siamo cosi freddi in un mondo sempre più oggettuale e in spazi indirizzati al solo consumo. Freddamente.
L’attualità in caduta verticale pare limitarsi a soddisfare le cose che piegano al brutto, al noioso, al procedurale. Senza neanche più rifugiarsi in un altrove. Anche illusorio, onirico, campato per aria, pur sempre differente, rispetto a riti, miti, giri di danza, tristi parodie dell’entusiasmo rarefatto. La fredda quotidianità si predispone a tempo e modo irrisolvibile, poiché colma di paradossi insoluti. Empasse esistenziale di vite sospese e rassegnate che valgono mille articoli, saggi, discorsi, riflessioni. Il disagio di uscire di casa e trovare gli altri. Cioè vivere con tutto ciò che comporta. La freddezza come pilota automatico. Certezza sempre più incrollabile. Risultato scritto in partenza. Piccolo o grande disagio. Forse, il vero disagio dovuto a una radicale insoddisfazione a tutti i livelli anche nell’epoca della robotica e dell’intelligenza artificiale, delle app e dei social media.
Dicono che presto arriverà un’ondata di freddo. Quando vengono a mancare idee e sentimenti, la freddezza, purtroppo, non va mai via. Un livello descrittivo e documentale a seconda dello stilismo in voga; e anche, un livello di affinità quotidiana con le forme e con i segni inequivocabili di un raffreddamento complessivo. Arriverà prima il freddo, quello vero. E la neve. Non siamo più, amarissima constatazione, un popolo di santi, eroi e navigatori. Di freddi, freddissimi sì.