Gli Houthi appoggiati dall’Iran attaccano le navi nello stretto che porta al Mar Rosso, strategico per i trasporti mondiali. Gli Stati Uniti organizzano una risposta militare

Che sarà una crisi petrolifera la conseguenza globale della guerra di Gaza, è sembrato inevitabile la mattina di domenica 31 dicembre, quando all’imboccatura meridionale del Mar Rosso è scoppiata una battaglia navale fra la marina americana e i ribelli Houthi dello Yemen, ispirati e armati dall’Iran in chiave anti-Israele. Quattro motoscafi armati hanno attaccato la nave portacontainer Maersk Hangzhou nello stretto di Bab el-Mandeb, fra lo Yemen (ormai occupato per due terzi dagli Houthi) e lo Stato africano di Gibuti. A bordo, un agguerrito gruppo di miliziani, impegnati dallo scoppio del conflitto nel sostegno ad Hamas (per il quale il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdolahian li ha ufficialmente ringraziati il 2 gennaio). All’Sos della portacontainer, sono accorsi gli elicotteri della portaerei Eisenhower. I pirati li hanno accolti a fucilate: gli americani hanno risposto al fuoco distruggendo tre barche e uccidendo dieci guerriglieri.

 

Obiettivo dei primi attacchi degli Houthi, in novembre, era impedire che arrivassero beni e risorse energetiche a Israele, ma ormai a essere presi di mira, saccheggiati, sequestrati o rapinati, sono portacontainer e petroliere di qualsiasi nazionalità e destinazione. Oltre trenta attacchi nel solo ultimo mese dell’anno, tanto che gli Stati Uniti hanno annunciato il 19 dicembre la task-force multinazionale “Prosperity Guardian” per sorvegliare un braccio di mare attraverso cui passa un terzo dei container mondiali, il 19% del petrolio, l’11% del gas liquido. Una ventina i Paesi che hanno aderito, fra cui l’Italia: il ministro della Difesa, Guido Crosetto ha però detto al capo del Pentagono, Lloyd Austin, secondo la Reuters, che manderà la fregata missilistica Fasan (già impegnata in un’operazione anti-pirateria di fronte alle coste somale) su richiesta delle aziende spedizioniere e non come adesione ufficiale all’iniziativa americana. L’Italia non vorrebbe ostentare un appoggio eccessivo a Israele vista la brutalità della risposta all’attacco di Hamas.

 

All’escalation militare corrisponderà l’altrettanto temuta crisi energetica? «Non è così automatico», avverte Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Il motivo riporta all’America, non però come gendarme del Golfo bensì come primo produttore di petrolio al mondo con 13,2 milioni di barili al giorno estratti (900mila più di un anno fa) e 4,5 milioni esportati, una quota analoga a quella dell’Iraq, secondo Paese dell’Opec dopo l’Arabia Saudita. «Malgrado le proteste degli ambientalisti - spiega Tabarelli - l’industria del “fracking” continua a investire massicciamente». È la tecnologia con cui negli Stati Uniti si estrae dagli strati scistosi più profondi petrolio e gas. I dati del centro studi Kpler indicano che nel 2023 le consegne di greggio Usa in Europa sono aumentate dal 34%, e dell’82% da prima dell’invasione dell’Ucraina (febbraio 2022). Anche nel gas liquefatto le esportazioni sono in crescita. La banca d’affari inglese Evercore calcola che le aziende americane del fracking aumenteranno ancora gli investimenti nel 2024 del 2% fino a 115 miliardi di dollari, dopo averli potenziati del 19% nel 2023. Il mercato è vivacissimo: la Exxon ha appena comprato la Pioner Natural Resources per 60 miliardi e la Chevron per 53 miliardi ha acquisito la Hess, due aziende del fracking. «L’aumento dell’offerta americana non è l’unico motivo per cui i prezzi energetici, pur in salita (+2% il 2 gennaio il Brent fino a 79 dollari, ndr), non sono impazziti», puntualizza Tabarelli. «Nel 1973 con la guerra del Kippur e l’embargo all’Occidente i prezzi quadruplicarono da 3 a 12 dollari in poche settimane, e dopo la rivoluzione iraniana quando raddoppiarono da 20 a 40. Ora siamo in un’altra realtà, c’è sovrabbondanza di petrolio in giro per il mondo». Altro che “fine dell’era del greggio” come veniva profetizzato: «Vengono continuamente scoperti nuovi giacimenti immensi, come quelli della Exxon Mobil nell’offshore della Guyana o quello appena avviato nelle acque profonde al largo del Brasile, che non a caso ha chiesto di entrare nell’Opec, denominato Anita Garibaldi (la moglie del generale era brasiliana di Morrinhos, ndr). L’offerta cresce ma la domanda è debole: intanto ci sono le fonti rinnovabili, poi la debolezza dell’economia mondiale dovuta alla semi-recessione da tassi alti». Intendiamoci, avverte l’esperto, dopo la battaglia del 31 dicembre «la situazione può precipitare in caso di un incidente ancora più grave come l’attacco contro un impianto petrolifero saudita da parte degli Houthi (ce ne fu uno nel 2017 e la vendetta è stata sanguinaria, ndr) o un confronto protratto con gli Usa. Se l’Opec decide di schierarsi contro l’Occidente, sarà impossibile controllare i contraccolpi sull’energia e quindi sull’economia mondiale».

 

Il mondo è cambiato anche sotto un altro profilo. «L’Iran stava cercando, prima che la guerra di Gaza sconvolgesse tutto, di uscire dall’isolamento almeno nel Medio Oriente», spiega Stefano Silvestri, esperto di geopolitica e consulente dello Iai. «Teheran aveva in piedi uno storico disgelo con l’eterno nemico Arabia Saudita. Per favorire il processo, Riad aveva il 6 aprile cessato di contrastare gli Houthi (dopo averne uccisi più di 300mila nei dieci anni precedenti, ndr), ottenendo in cambio dallo sponsor iraniano che i miliziani non sparassero più sulle infrastrutture petrolifere saudite». Ma ora si torna all’instabilità: la rottura del patto voluta dagli Houthi con il pretesto della solidarietà palestinese, riporta indietro l’orologio della storia: «Il fatto che il 1° gennaio sia arrivato a Bab el-Mandeb il cacciatorpediniere iraniano Alborz aggiunge tensione. L’Iran, non dimentichiamolo, ha sempre in mano la carta Hezbollah, che pure controlla, al confine libanese».

 

C’è una terza categoria di conseguenze oltre al petrolio e alle alleanze: i contraccolpi commerciali. I colossi delle spedizioni sempre più spesso anziché puntare su Suez fanno circumnavigare l’Africa alle loro navi, allungando la navigazione di 10-13 giorni e spendendo un milione di dollari in più di combustibile, pur di evitare il Mar Rosso. I valori dei noli marittimi e delle assicurazioni, quelli sì, sono già raddoppiati, e si attendono le ricadute sui prezzi dei beni trasportati, dalle auto all’elettronica. Il primo a deviare la rotta è stato il numero uno, Mediterranean Shipping Company, la Msc basata a Ginevra ma fondata nel 1970 dall’armatore napoletano Gianluigi Aponte (fattura oggi 86 miliardi di dollari). A ruota hanno seguito la tedesca Hapag-Lloyd, la francese Cma Cgm, la danese Maersk, la taiwanese Evergreen, la cinese Yang Ming. Fra le petroliere gestite direttamente dalle compagnie, la britannica Bp e la norvegese Equinor hanno già deciso l’allungamento del tragitto. «La paura numero uno - conclude Silvestri - è che l’Iran decida non più solo “proxy”, per procura, di entrare direttamente nel conflitto». Intanto, mercoledì 3 gennaio i comandi militari di Stati Uniti e Regno Unito hanno avvertito gli Houthi: se gli assalti non cesseranno, le loro basi di terra in Yemen saranno attaccate.