La falla sull'aereo a inizio anno è stato l'ultimo guaio per l'azienda che ancora non si era ripresa dai problemi del 737 Max. Ma mentre le perdite miliardarie si accumulano, il rapporto strettissimo con l’apparato militare degli Stati Uniti la rende un'azienda chiave da salvare a ogni costo

Che succede alla Boeing? È l’orgoglio e il vanto dell’industria aeronautica americana, fondata nel 1916, costruttrice del glorioso 747 che ha segnato un’epoca nell’aviazione civile, dell’aereo presidenziale Air Force One, del cacciabombardiere “invisibile” Stealth. Ma ora è diventata una fonte di imbarazzo e angoscia per il Paese, un po' come l’Ilva da noi.

 

L’ultimo incubo per l’azienda da 66 miliardi di dollari di fatturato e 160 mila dipendenti è iniziato alle 17.15 del 5 gennaio sui cieli dell’Oregon: un boato ha squarciato il silenzio del volo Alaska Airlines 1282, partito da dieci minuti da Portland e diretto a Ontario, Canada. I 174 passeggeri non hanno fatto in tempo ad accorgersi di quello che stava succedendo perché sulle loro teste sono piovute le maschere a ossigeno mentre i quattro assistenti di volo urlavano di indossarle. Era esplosa un’uscita d’emergenza a fianco della fila 26 aprendo una falla nella fusoliera, e solo una miracolosa congiunzione astrale ha voluto che i posti 26A e 26B fossero fra i pochi vuoti di quel volo affollato. A un ragazzo di 16 anni che sedeva nel 26C è stata strappata la camicia, risucchiata fuori bordo al pari di telefonini, bicchieri di carta, borse. Dopo 20 minuti di incubo i due piloti sono riusciti a riportare l’aereo a Portland, e nessuno si è fatto un graffio.

 

Molto più di un graffio invece per la Boeing e la riapertura di una ferita che si stava appena rimarginando. L’aereo dell’Alaska Airlines era un 737 Max, lo stesso – solo con una configurazione un po’ diversa – protagonista di altri due incidenti, quelli sì tragici, attribuiti al malfunzionamento del software di pilotaggio. Il 29 ottobre 2018 il volo Lion Air 610 (una compagnia low-cost indonesiana) è precipitato poco dopo il decollo da Giacarta provocando la morte di tutti i 189 a bordo. Identico destino, e identico aereo, per il volo Ethiopian Airlines decollato da Addis Abeba e diretto a Nairobi il 10 marzo 2019: 157 morti. La Federal Aviation Admnistration e subito dopo gli enti di controllo di tutto il mondo ordinarono la messa a terra di tutti i 400 esemplari in servizio. La Boeing sospese la produzione.

 

Sono serviti due anni perché, dopo tutti i controlli possibili e il costoso cambio totale del software, quel modello di aereo tornasse a volare. Ma nel frattempo era scoppiato il Covid, con i colossali danni che ha provocato a tutto il trasporto aereo. Per la Boeing, pioggia sul bagnato: 40 mila dipendenti furono licenziati nel solo 2020, da allora non si è più chiuso un bilancio in utile (11,9 miliardi di perdite nel 2020, 2,4 nel 2021, 5,1 miliardi nel 2022 e una prospettiva non rosea per il 2023), anche per le multimilionarie spese legali connesse con gli incidenti. Il danno d’immagine è stato spaventoso. Però con il tempo, collaborando con gli ispettori federali, riprogettando il software maledetto, riavviando su nuove basi l’attività (e con un nuovo amministratore delegato, Dave Calhoun subentrato a Denis Muilenburg licenziato all’inizio del 2020), la Boeing cominciava e vedere la luce in fondo al tunnel, simboleggiata dalla vendita nel novembre 2023 proprio alla Ethiopian di venti 737 Max, che si aggiungono ai 90 ordinati dalla Sun Airlines, una joint-venture low-cost di Lufthansa e Turkey Airways.

 

Sennonché, all’alba del nuovo giorno ecco lo sconcertante incidente di Portland. Di nuovo blocco a terra per 170 aerei, quasi tutti di compagnie americane, di nuovo controlli serratissimi, che stavolta sono ancora più complicati perché ci sono da verificare, sotto la vigilanza della Faa, tutti i milioni di bulloni, viti, giunti, che tengono unita la fusoliera. Già su una decina di aerei sarebbero state riscontrate anomalie. I controlli si estendono ai subfornitori, in particolare la Spirit AeroSystems che costruisce i pannelli di fusoliera incriminati. È un’azienda dalla storia tormentata, scorporata dalla stessa Boeing nel 2005 e da allora sempre divisa dall’ex casa madre da dispute sulla qualità del lavoro e sui costi. Costruisce le fusoliere nel suo stabilimento di Wichita in Kansas e le spedisce in treno a Renton, Stato di Washington, dove la Boeing provvede all’assemblaggio finale. Probabilmente, dicono gli analisti del trasporto aereo, le falle nella manifattura delle parti per l’aereo Boeing sono da ricercare nella frenetica ripresa post Covid: troppa fretta, ed ecco che esce l’errore. Peraltro, l’outsourcing della produzione delle componenti è una pratica ampiamente seguita dalla Boeing: a Grottaglie in provincia di Taranto, vicino all’Ilva, c’è un grande stabilimento di Leonardo con duemila dipendenti che produce pannelli di fusoliera per il 787, un altro modello della casa che non ha mai avuto problemi.

 

C’è un ultimo aspetto. La Boeing viene seguita con attenzione maniacale e puntellata finanziariamente dall’aeronautica militare Usa di cui è il primo fornitore: la quota della Difesa nel fatturato Boeing supera quella civile (26,5 miliardi nel 2022 contro 25,9, più 17,6 di servizi) e in questo momento in cui gli Stati Uniti sono impegnati su così tanti fronti, il Pentagono non può permettersi di perdere un partner del genere. Non solo gli Usa: per Israele la Boeing sta sfornando una nuova versione dell’elicottero Apache più potente e più armato. Viste le condizioni drammaticamente difficili in cui questi velivoli da guerra operano, è ancora più importante che siano costruiti a regola d’arte. Ma questo è ovviamente valido anche per l’aviazione civile. Sta all’azienda dimostrare ancora una volta la propria affidabilità.