Industria
Il lungo balletto di Arcelor e governo sul cadavere di Ilva. E sui lavoratori
L'unica alternativa percorribile per salvare la fabbrica è far entrare a Taranto Vulcan Green Steel. Ma è una corsa contro il tempo, perché il colosso franco-indiano sta lavorando sullo spegnimento degli impianti
La strategia è quella del logoramento. Calendario alla mano, i ripensamenti del socio di maggioranza di Acciaierie d’Italia, ArcelorMittal, vanno avanti da un mese esatto. A fine dicembre lo stallo in Consiglio di Amministrazione, dove nessuno è in grado di stabilire chi verserà il denaro per rimpinguare (per l’ennesima volta) le casse a secco dell’ex Ilva. Pochi giorni dopo va in scena l’ammutinamento dell’Assemblea dei soci, a cui segue (8 gennaio) il duro faccia a faccia fra il governo e Aditya Mittal, amministratore delegato del colosso ArcelorMittal: Aditya rompe le trattative, non metterà neppure un centesimo nell’aumento di capitale. Da lì parte un valzer di ravvedimenti unilaterali: prima una lettera inviata da Mittal alla presidenza del Consiglio, che sembra addivenire a più miti soluzioni, poi una seconda missiva (18 gennaio) che parla della piena disponibilità di Aditya Mittal a sedersi al tavolo di trattativa, metterci i soldi e restare socio di minoranza. I colleghi acciaieri si stanno domandando perché i franco-indiani abbiano deciso di perdere la faccia per uno stabilimento che, ormai, produce meno di tre milioni di tonnellate, quando Mittal ne genera 88 milioni l’anno.
In tutto questo balletto, il socio di minoranza, cioè Invitalia, società pubblica controllata al 100 per cento dal Mef e amministrata da Bernardo Mattarella, e il governo, tramortiti da cotanta (inattesa) strategia del logoramento, si sono irrigiditi al punto da aver apparecchiato il tavolo per portare Acciaierie d’Italia in As, Amministrazione Straordinaria. Un capolavoro di complessità, se si considera che nel 2015 l’ex Ilva entra in Amministrazione Straordinaria per la prima volta – rifilando un bidone da 150 milioni di crediti non riscossi alle tante imprese dell’indotto – a cui segue una delicata procedura di riqualifica e vendita, conclusasi con l’affitto degli impianti ad Arcelor. In parole semplici, quella che si appresta a entrare in As non è l’Ilva, con i suoi macchinari, con i terreni, le palazzine e i capannoni, ma solo l’affittuario, cioè Acciaierie d’Italia (Adi), una società con a carico 12 mila tute blu e padrona di nulla, se non di un debito gigantesco: stavolta l’Aigi, l’associazione che raggruppa la maggior parte delle aziende dell’indotto ex Ilva, dice che in ballo ci sono altri 120 milioni.
È una piccola fetta del valore complessivo dei debiti commerciali dichiarati nel bilancio 2023 di AdI: l’ammontare complessivo è di oltre due miliardi, di cui i tre quarti (1,438 miliardi) infragruppo, cioè maturati nei confronti di società della galassia Arcelor. Le molte società siderurgiche che si sono affacciate al dossier Ilva, hanno letto questi numeri e hanno espresso perplessità, oltre che per il debito monstre, anche sugli utili, che stridono con il massiccio ricorso alla cassa integrazione e alle iniezioni di finanziamento pubblico – una prima tranche da 400 milioni e un’altra da 680 milioni – servite a coprire gli ammanchi di cassa: banalmente quel denaro è stato speso per pagare bollette, fornitori esterni e materia prima, non per fare investimenti. E se persino il socio di minoranza, Invitalia, ha ribadito di essere all’oscuro dei conti di AdI – lo ha ripetuto ai sindacati la settimana scorsa – ecco spiegato perché i siderurgici che hanno aperto il dossier Ilva l’hanno subito richiuso, rifiutandosi di metterci il naso finché l’intricata matassa non fosse dipanata. Da qui il motivo per cui l’Amministrazione Straordinaria è, in realtà, l'unica strada percorribile se si vuole fare spazio a un nuovo investitore, terrorizzato da debiti miliardari verso il colosso franco-indiano. L’As, però, è una via temutissima dagli attuali amministratori di AdI, specialmente dalla ceo Lucia Morselli, espressione diretta di ArcelorMittal, perché l’amministrazione straordinaria implica ispezioni sull’attività presente e passata, con il rischio di incappare in sanzioni e processi. Fonti governative dicono che al tavolo di trattativa sarebbe aleggiata l’ipotesi di contestazioni sui bilanci depositati e ArcelorMittal avrebbe chiesto una manleva da responsabilità gestionali per Morselli. Certo è che, in previsione di un lungo contenzioso legale, la stessa Morselli ha presentato la settimana scorsa alla Camera di Commercio di Milano un’istanza di composizione negoziata che da un lato serve ai fini della strategia di logoramento (ovvero allungare il brodo il più possibile perché questa richiesta ritarda ogni altra progettualità di altre due settimane) e dall’altro è utile a dimostrare la pacifica volontà di trovare una soluzione in continuità all’interno del perimetro dell’attuale azionariato. «Ci attendono altri 14 giorni di passione», commenta Rocco Palombella della Uilm, che assieme ai segretari generali di Fim e Fiom, Roberto Benaglia e Michele De Palma, stanno faticosamente gestendo una cassa integrazione straordinaria a zero ore per tutto il personale – 8.200 tute blu a Taranto, mille a Genova, 700 a Novi Ligure, 120 a Porto Marghera – più i 1.600 ex dipendenti Ilva, rimasti in carico all’amministrazione straordinaria e altri 10 mila dipendenti dell’indotto. E sono sempre i sindacati, attraverso i tecnici della manutenzione (gli unici esclusi dalla Cigs) a vigilare affinché lo stabilimento non subisca ulteriori danni in questa delicata fase di gestione da parte di ArcelorMittal: «Due altiforni sono fermi, ma caricati con carbon coke, e quindi ancora funzionanti. L’altoforno 4 è attivo, ma cola pochissima ghisa poiché nei magazzini il minerale è scarsissimo e le navi non stanno scaricando altro materiale», dice Palombella. Non è ancora possibile sapere se i bassi regimi e le ripetute fermate degli altiforni abbiano compromesso la capacità produttiva: se così fosse, allora lo stabilimento tarantino perderebbe attrattività.
Parallelamente alla procedura negoziale richiesta dall’amministratrice delegata Lucia Morselli, il socio di minoranza Invitalia ha avviato una richiesta di Amministrazione Straordinaria che, per essere operativa, necessita a sua volta di 15 giorni: ecco perché il sindacato parla di due settimane di passione. I sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano – che stanno seguendo la vicenda assieme al ministro del Made in Italy, Adolfo Urso – stanno già lavorando ai nomi dei commissari da nominare: si è già fatto il nome di Carlo Mapelli, professore di Ingegneria dei materiali al Politecnico di Milano, in passato nel cda dell’ex Ilva con il ruolo di portare a Taranto una tecnologia sostenibile. Il governo punta ancora su di lui per il Dri, cioè la creazione di due innovativi forni elettrici da caricare con preridotto di biocarbone e alimentare a idrogeno. L’obiettivo, infatti, è quello di fare spazio alla produzione di energia da idrogeno a partire dalla combustione del gas metano, sequestrando il carbonio ottenuto (che altrimenti sarebbe altamente inquinante): il carbonio sarebbe la base di partenza per studi di nanotecnologie e relative produzioni. L’altro nome è Rocco Sabelli, attuale presidente Invitalia, che potrebbe rappresentare una garanzia sul fronte delle competenze finanziarie e un ponte con gli investitori. Si fa strada anche la possibilità di un terzo commissario, un tecnico dell’epoca Riva.
A meno di un colpo di scena, ovvero la remotissima ipotesi che il governo decida di salire in maggioranza e accettare la proposta di Arcelor di restare nel perimetro di Acciaierie d’Italia in minoranza, le potenziali soluzioni sono quattro, di cui tre difficilmente percorribili. Da una parte il cavalier Giovanni Arvedi, che dopo il declino di Ilva è diventato il maggior produttore di acciaio italiano e, proprio per questo, l’Antitrust ha già storto il naso. Inoltre Arvedi non possiede la catena di approvvigionamento di materie prime per produrre il preridotto e il timore del governo è che, alla fine, Arvedi chieda un forte sostegno in termini di finanzia pubblica. La via suggerita dall’altro siderurgico, Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, patron della Duferco, e in corsa per Confindustria, in tandem con l’acciaiere bresciano Giuliano Pasini, è quella di usare i forni ad arco sommerso da affiancare ai vecchi convertitori: ma la strada è difficilmente percorribile perché esporrebbe Taranto a elevati rischi di slopping, cioè le emissioni di polvere rossastra dalle acciaierie che periodicamente si verificano a Taranto e spaventano la cittadinanza, essendo fortemente inquinanti. Un siderurgico che potrebbe prendere in mano l’intera vicenda è Antonio Marcegaglia, il più grande centro servizi di acciaio in Italia, produttore siderurgico nel Regno Unito che, tuttavia, ha compromesso la propria immagine, perché fu l’attore italiano che portò in scena ArcelorMittal, per poi sparire.
L’opzione più avanzata, quella con cui il governo sta dialogando da oltre due mesi, e che vede anche il favore della premier Giorgia Meloni, perché asseconda l’intesa con il premier indiano Narendra Modi, è quella di consentire l’ingresso a Taranto di Vulcan Green Steel, costola di siderurgia sostenibile del gruppo indiano Jindal, che offre al governo italiano 1,8 miliardi di investimenti di tasca propria, senza gravare su finanziamenti pubblici e controlla le catene di approvvigionamento dall’Oman, sia del preridotto, che si chiama Hbi, Hot briquetted Iron, sia del minerale adatto ad alimentare gli altiforni. Vulcan, che in Oman sta realizzando un impianto da 5 milioni di tonnellate di acciaio totalmente sostenibile grazie a partnership con imprese italiane come Danieli, sarebbe disposta a farsi carico di metà del personale e di gran parte dell’area a caldo e di quella a freddo, puntando a un progetto di verticalizzazione dell’acciaieria, ovvero la produzione di acciaio lavorato, che consente la creazione di maggior valore aggiunto. L’altra metà del personale di Taranto verrebbe assorbita dal centro tecnologico per il carbonio e dal team di società che gestirà la produzione di biocarbone, partendo da scarti fognari, potature, pollina avicola e altro materiale di discarica per farne bricchetti ecocompatibili di preridotto, per alimentare i forni. Quest’ultimo progetto, già all’attenzione del ministero dell’Ambiente, è il cuore del nuovo piano di transizione ecologica per Taranto e sorgerebbe all’interno di Ilva, da frazionare in tre lotti: uno assegnato a Vulcan Steel, uno per la produzione di preridotto e il terzo vedrebbe la presenza dello Stato, forse con un partner industriale.
In questo scenario si inserisce la vendita di Piombino agli ucraini di Metinvest, che avranno gioco facile a riaccendere gli impianti siderurgici grazie alla presenza del porto, dove far attraccare rottame proveniente dall’estero e preridotto algerino. Ovviamente questo determinerà un aumento della capacità produttiva italiana che, da un lato, potrebbe mettere in difficoltà produttori come Arvedi che, a differenza di Metinvest su Piombino e Vulcan Green Steel su Taranto, non hanno a proprio vantaggio la vicinanza del porto e luoghi da cui approvvigionarsi con preridotto e minerale, ma dal punto di vista della filiera dei clienti, offrirebbe concorrenza e competitività: ne gioverebbe l’ossatura metalmeccanica del Paese, che sta a valle di tutto e che finora nessuno ha considerato, se non per la generica necessità di accorciare le catene del valore. Ovviamente riaccendere i motori della siderurgia non è facile, ma è indispensabile per salvare non solo i 10 mila dipendenti di Ilva, ma 1,6 milioni di addetti della metalmeccanica italiana, che dipende mani e piedi dall’acciaio.