I dialoghi de L'Espresso
Luciano Ligabue: «Lucio Dalla mi ha salvato nell'anno più di merda della mia vita»
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Luciano Ligabue: «Lucio Dalla mi ha salvato nell'anno più di merda della mia vita»
«Facevo l’artigliere durante la leva a Belluno ed ero vicino alla depressione. Subivo angherie, bullismo, nonnismo. Il suo disco è stato un salvagente insieme a “Patriots” di Franco Battiato e al libro “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli». Dialogo a tutto campo con il cantautore impegnato nel tour per il nuovo album: il rapporto con Guccini e Pavarotti, il periodo catastrofico che stiamo vivendo, il bisogno di un senso di appartenenza
Fa effetto vedere Luciano Ligabue nel suo covo, il suo rifugio, che dietro lo schermo assomiglia a un ufficio qualsiasi ma in realtà è un pezzo di storia musicale d’Italia. Si chiama Ca’ di Pòm, la casa delle mele, un tempo sede del fan club del cantautore, il bar Mario dove si ritrovava con gli amici, ascoltava musica, si rilassava e soprattutto componeva. Nel cuore di Correggio in terra d’Emilia, già feudo medievale e poi principato. «Ca’ di Pòm, che mio padre mi fece comprare tantissimo tempo fa, così chiamavano il manicomio della mia zona. Qui, nella stanza rossa, ho scritto alcune delle canzoni più famose», esordisce Liga mentre affiorano i ricordi. Ha preso vita tra queste pareti anche gran parte dei brani di “Buon compleanno Elvis”, l’album che trent’anni fa lo consacrò al grande pubblico. «Certe notti fai un po’ di cagnara/ Che sentano che non cambierai più /Quelle notti fra cosce e zanzare/ E nebbia e locali a cui dai del tu/ Certe notti c’hai qualche ferita/ Che qualche tua amica disinfetterà», cantava Liga infiammando palasport e teatri da Milano a Palermo. Centinaia di concerti, sette libri, tre film e una ventina di album più tardi, a 63 anni, oggi Ligabue è ancora lì che va su e giù da un palco, prendendo il titolo del suo primo disco live.
L’ultimo tour, una trentina di date a partire dall’Arena di Verona per presentare l’album “Dedicato a noi”, il quattordicesimo – per la prima volta il batterista ufficiale di tutti i brani registrati è suo figlio Lenny, il primogenito, mentre ha avuto la seconda figlia, Linda, con Barbara Pozzo – è stato un successo annunciato.
Ligabue, che Italia ha trovato? «È impossibile non notare una diversa marcia e un diverso calore tra Nord e Sud, dove il pubblico si lascia andare molto di più. Il resto è a interpretazione: ci spostiamo in maniera meccanica, ci mettono come un pacco su una macchina, ci scaricano e ci dicono di fare il soundcheck, poi ci rimpacchettano e ci portano in albergo in attesa del concerto. Prima di salire sul palco incontriamo qualche persona. Tutto qui».
Più che all’esperienza personale allora, per fotografare il Paese l’autore di “Piccola stella senza cielo” ricorre alla sociologia. «L’incontro con le persone ha confermato la sensazione che mi ha portato a scrivere l’album “Dedicato a noi”. Le stesse cose che dice l’ultimo rapporto Censis», prosegue Ligabue: «Siamo un Paese di gente che si è isolata sempre di più, spaventata e, devo dire, legittimamente. Se faccio i conti con la mia esperienza, sei inizi di decenni, non ho memoria di un periodo così catastrofico come questo. Se mettiamo in fila la pandemia con i segni che ha lasciato, una guerra a cui fa seguito una seconda guerra, le notizie di cronaca che fanno accapponare la pelle come i femminicidi, i disastri ambientali con il peggioramento esponenziale del cambiamento climatico, la generazione Z che confessa all’analista di non avere una idea di futuro, non c’è da stupirsi».
Ad ascoltare canzoni come “Niente piano B”, dall’ultimo album, la speranza sembra scarseggiare, ma secondo Ligabue l’umanità ha ancora una via di uscita. «Viene da dire: cosa posso fare io? Occorre riscoprire un senso di appartenenza, ho bisogno di un noi, sentirmi parte di qualcosa. Siamo esseri unici, diversi gli uni dagli altri. Questo deve essere visto non come un limite ma come possibilità. Oggi questa idea dominante di mondo non mi piace per niente, non voglio subirla».
Riavvolge il nastro Ligabue, torna al tempo delle radio libere, corsare, scazzate e irriverenti, l’epopea ribelle e collettiva di “Radiofreccia” (1998), film di esordio scritto e diretto dallo stesso cantautore, con Stefano Accorsi e Luciano Federico. L’Emilia di metà anni Settanta, la provincia, gli amori e l’eroina. Il cantautore viene da lì – Radio Attiva, Mondoradio Rock Station – e da lì arriva la sua prima band, gli Orazero, nella seconda metà degli anni Ottanta. E sono nati lì anche i suoi amici, tra cui Claudio Maioli, suo storico manager. «Noi ragazzini ascoltavamo a bocca aperta i racconti dei settantenni. A parte la degenerazione armata, dal punto di vista sociale gli anni Settanta sono stati irripetibili. Non si era mai visto un periodo in cui studenti, lavoratori e intellettuali marciavano insieme nella stessa direzione. Questo senso di comunità è passato anche attraverso le radio libere: la prima è stata Radio Parma, aperta il primo gennaio 1975, un passaggio epocale nella cultura del nostro Paese. Di colpo abbiamo pensato che bastasse un nostro amico con il diploma di istituto tecnico per mettere su un’emittente».
C’era una volta l’Emilia, dunque, e se dici Emilia dici Francesco Guccini, che nel film “Radiofreccia” veste i panni di un barista. «Con lui ho un’amicizia importante: è uno dei pochi dell’élite dei cantautori che si fa volere bene», continua. La musica di Ligabue, con i bar, le stazioni ferroviarie, i personaggi d’altri tempi, è radicata in questa terra insieme ai grandi artisti di ieri e di oggi: Lucio Dalla, Vasco Rossi, Luciano Pavarotti, i Nomadi, Zucchero, Samuele Bersani, anche i CCCP con la loro Emilia paranoica. Cosa avete in comune e cosa ha questa regione di tanto speciale? «Aggiungo Luca Carboni, non devi dimenticarlo. A noi emiliani ci chiamano i terroni del Nord, una definizione in cui non mi riconosco, non sono così estroverso. Qui c’è una fortissima cultura folk, il liscio, la cultura della balera che conosco molto bene. È un luogo speciale, in un paese di 20mila abitanti sono venuti a suonare Bob Dylan, Neil Young, Jeff Buckley».
Nel pantheon di Liga c’è un posto speciale anche per Lucio Dalla. «È uno degli interpreti che più mi hanno emozionato. Il suo album “Dalla”, quello con dentro “Futura”, è stato uno dei salvagenti emotivi nell’anno più di merda della mia vita, quando facevo l’artigliere da montagna durante la leva a Belluno. Subivo angherie, bullismo, nonnismo, non tornavo mai a casa. Quel disco mi ha salvato insieme a “Patriots” di Franco Battiato e il libro “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli, ero vicino alla depressione». La raccolta di racconti di Tondelli, che l’autore concittadino di Ligabue preferiva definire «romanzo a episodi», conquistò lettori in maniera dilagante e inaspettata. A causa del suo contenuto eversivo, le bestemmie in particolare, il procuratore generale dell’Aquila ne ordinò il sequestro per oscenità e oltraggio alla pubblica morale. Qual è la lezione di Tondelli? «Gli devo tantissimo, “Altri libertini” resta uno dei libri più importanti che abbia mai letto. Il primo racconto, “Postoristoro”, narra di un gruppo di tossici che aspetta la dose che deve arrivare in stazione a Reggio Emilia. È pieno di bestemmie, per me è stato uno shock perché per me lui rappresentava l’oratorio, insegnava catechismo. Tutto quello che lui raccontava nel libro lo avevo sotto gli occhi, ma leggendolo diventava interessante. La sua lezione, enorme, è stata: posso farlo anch’io».
Nella propria terra Ligabue ha trovato mentori, maestri e storie da raccontare, come quelle raccolte in “Fuori e dentro il borgo” (Dalai editore), il primo libro del cantautore, che adesso parla come un fiume in piena. Gli ultimi giorni di Luciano Pavarotti, ad esempio, li racconta come fosse ieri. «Ero andato a trovarlo nel suo maneggio per cavalli», racconta il cantautore: «A pochi giorni dalla scomparsa si muoveva sulla sedia a rotelle e ancora insegnava. Sapevo delle sue condizioni, l’ho salutato e ho assistito alla lezione. Ricordo che fece un mazzo grande come una casa a un suo allievo: “Le parole vanno abitate, quando canti devi abitare le parole! Non me ne frega niente che canti bene, devi sentire e capire fino in fondo quello che canti”, gli disse. Era implacabile. Dopo si è messo al tavolino con i suoi tre amici di una vita a giocare a carte imprecando e bestemmiando contro chi non lo faceva vincere, come sempre. Era così solido, andava sempre al nocciolo delle questioni, non c’è nessun altro tenore di cui si capiscano così bene le parole».
Riaffiorano uno dietro l’altro i ricordi, la realtà si cristallizza nella memoria e si fa strada la nostalgia, la sostanza di cui è fatta la musica. «La musica sentimentale ha un grande potere: ti riporta indietro nel momento stesso in cui ti porta avanti, così che provi, contemporaneamente, nostalgia e speranza», scrive Nick Hornby in “Alta fedeltà”. Lo sa bene Liga, ma cerca di sfuggire alla trappola dell’emozione. «Provo nostalgia per periodi migliori, non dal punto di vista personale ma sociale. Per quel senso di comunità che si è perso, che oggi sento precario e che i social non possono sostituire. Certo, alla mia età è facile avere un po’ di nostalgia per quando ne avevi trenta, ma questo è un altro paio di maniche. Ho una predisposizione alla malinconia semmai, più che alla nostalgia. Ma credo che quella sia una delle fonti di ispirazione per chi scrive. Ad esempio, anche la canzone “Balliamo sul mondo”, che vuol dire facciamo l’amore, in realtà parte con una sensazione di malinconia: «Siamo della stessa pasta, bionda non la bevo sai/ Ce l’hai scritto che la vita non ti viene come vuoi». Senza malinconia non avrei mai cominciato a scrivere, dunque me la tengo come compagna piacevole, non sempre ma la sopporto».