Carri armati rosa, mitra che sparano dollari, dildo. Alla chiamata di Cheap, “Fuck war”, hanno risposto 662 artisti. E hanno affisso 200 poster sui muri di Bologna. Tra ironia, denuncia e rabbia

Su un muro di mattoni rossi compaiono cinque poster, che ritraggono dei soldatini giocattolo, poi una schiera di lingotti d’oro a forma di bara, e infine un colore in formato Pantone: il verde antimilitarista. C’è un plug rosa che vola a tappare la bocca di fuoco di un cannone, e un mitra, sempre rosa, che si trasforma in un dildo, con la scritta “The war is gonna fuck us”. In un’altra opera appare un tetto e sotto la scritta “casa”, che in quattro passaggi diventa Gaza. Questi sono solo alcuni dei 1120 poster arrivati a “Cheap” in risposta alla sua ultima call for artists, intitolata “Fuck war”, 200 dei quali saranno visibili per le strade di Bologna fino alla metà di ottobre.

Il poster come strumento per agire sullo spazio pubblico, per provocare e generare riflessione in chi si trovi a passare proprio lì davanti. Una modalità espressiva in cui credono in molti, dato che hanno risposto alla chiamata 662 artisti da 41 Paesi nel mondo. Un tema urgente, ineludibile: la guerra, in aumento in tutte le aree del mondo, con 56 conflitti attivi, dall’Ucraina alla Palestina al Libano, in un vortice che appare inarrestabile. Forse l’amore, il sesso, la spinta vitale, sono i migliori antidoti contro un mondo che pare precipitare in una spirale di distruzione.

L’intento di “Cheap”, da più di dieci anni, è quello di confrontarsi con argomenti attuali, importanti, imprevisti. E, attraverso la street poster art, confrontandosi con illustrazioni, grafiche, fotografie, offrire prospettive differenti, paradossali, feconde. «“Cheap” lavora su immaginari e su ordini simbolici che sono controegemonici», spiega Sara Manfredi, cofondatrice del collettivo. «Noi cerchiamo di cortocircuitare quanto possibile un certo ordine del discorso, un certo potere simbolico agendo nello spazio pubblico».

E l’ultima call, su un tema così pervasivo e forse paralizzante, ha risvegliato energie creative dalle direzioni inaspettate. «In questo momento forse ci sembra che sia più facile immaginare la fine del mondo che non l’abolizione della guerra», riflette Manfredi. «E abbiamo quindi pensato che fosse necessario veicolare sullo spazio urbano di Bologna una serie di segni e simboli che invece sono in opposizione alla guerra e che a nostro avviso riescono a sabotare la retorica bellica».

L’altra campagna ora in corso si chiama “Legalize mestruazioni” (in collaborazione con l’associazione WeWorld), e vuole portare nel discorso pubblico uno dei temi tabù per eccellenza, il ciclo mestruale, argomento che va nascosto, che non va nominato, di cui non si può parlare. Mostrare le mestruazioni, dichiararle, renderle visibili attraverso i poster, è un modo per rendere chiaro che si tratta di un tema che riguarda tutti, di certo non solo le donne.

La forza di “Cheap” sta nella capacità di aprirsi a stimoli e discorsi, di porre in relazione continua realtà diverse, comunità e quartieri, artisti e curatela, spesso facendo un passo indietro rispetto all’autocelebrazione fine a se stessa.

Come scrivono le fondatrici in “Disobbedite con generosità”, volume pubblicato da People alla fine del 2023 per celebrare i primi dieci anni di vita del collettivo, «rinunciare a un nome individuale a favore di un’identità collettiva è il primo passo verso la destrutturazione di un’idea di autorialità che riteniamo tossica, con quell’inconfondibile retrogusto vetero-patriarcale: all’artista come genio e spesso come sregolatezza, all’artista come unicità, all’artista come ego, preferiamo l’idea che l’arte sia un fatto collettivo, una visione condivisa, un processo che aggrega invece di escludere».

È una scelta artistica e una dichiarazione politica, che “Cheap”, fondato da sei donne e poi allargatosi a mille elementi che gravitano attorno ai progetti che di volta in volta prendono vita, ha adottato ispirandosi a un gruppo di artiste altrettanto radicali e dissacranti: le Guerrilla Girls. Un collettivo che negli anni Ottanta comincia a tappezzare di notte le strade di New York con manifesti che vogliono denunciare la presenza schiacciante e pervasiva del sessismo e del razzismo nel mondo dell’arte contemporanea. Arriveranno anche a Bologna, nel 2017, con le loro inconfondibili maschere da gorilla, in un’azione condivisa che sarà il punto di partenza di un riconoscimento in chiave femminista, alla pari, tra le pioniere newyorkesi e le allieve bolognesi.

In realtà nessuna delle fondatrici è originaria di Bologna. «Ci siamo però formate in quegli spazi culturali e sociali che oggi sono praticamente spariti dalla mappa della città», continua Sara Manfredi. «Noi in città da più di dieci anni abbiamo aperto una conversazione, un dialogo. Che a volte viene sostenuto, riconosciuto. Altre volte raccoglie conflittualità. La dimensione del conflitto è necessaria, vitale ed è uno strumento critico. C’è sicuramente attenzione verso di noi. Siamo abituate a vivere questo equilibrio, tra conflitto e cura. Se da una parte infatti decostruiamo alcuni paradigmi con l’arte pubblica, dall’altra lo facciamo per portare nella città istanze, immaginari, questioni, rivendicazioni che di solito non trovano spazio in questa conversazione». Fondamentale, a ogni nuovo capitolo, ragionare sui luoghi e sulle modalità, capire a chi veramente sono indirizzati quei messaggi, per una forma d’arte che sia davvero pubblica, condivisa almeno nelle intenzioni. «Negli anni abbiamo cercato delle strategie di incontro, con le comunità, i quartieri. L’ascolto e l’incontro sono due degli strumenti che per noi hanno funzionato di più».