La bustarella conviene sempre. Fra abbreviati, patteggiamenti e piccoli versamenti cash, il condannato se la cava a prezzo modico. E per Giorgia Meloni la lotta alla mazzetta è un ricordo del passato

Chi dice Stato dice mazzetta. Ma l’eterno ritorno della bustarella bisogna saperlo assaporare con il rispetto dovuto alle tradizioni. La compravendita del politico o del manager pubblico può andare di traverso ai moralisti, ai boomer berlingueriani, ai grillini ante-marcia su Palazzo Chigi, ai cronisti cresciuti con Tangentopoli e condannati a sprecare la vita fra verbali di interrogatorio e ordinanze.

Di fatto, nel conflitto fra il governo Meloni e la magistratura, la rilevanza dell’azione penale per corruzione è in eccesso di ribasso. Sono lontani i tempi in cui, da candidata al Campidoglio, Giorgia tuonava: «La corruzione è una tassa inaccettabile a carico dei romani onesti. Ho già incontrato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone e gli ho chiesto di aiutarci nelle iniziative che abbiamo in mente: un responsabile del piano anticorruzione del Campidoglio indipendente e corsi anticorruzione per gli amministratori. Voglio istituire inoltre un meccanismo di premialità per chi denuncia un atto di corruzione».

Era il 2016. Otto anni e alcune riforme della giustizia dopo, il quadro legislativo instabile ha trasformato la bustarella in una questione umorale. Può suscitare indifferenza, gioia maligna, prediche e auspici di resurrezione etica. Ma è solo una delle due facce della luna. Sul lato oscuro, dove vivono quelli che sembravano tanto brave persone insieme a quelli che rubavano e lo sapevano anche i bambini dell’asilo, vendersi è un rischio calcolato, un po’ come l’abusivismo edilizio e l’evasione fiscale. Se ti beccano, magari con le mani nella marmellata fino alla clavicola, un patteggiamento non si nega quasi a nessuno. La tariffa più in voga è la condanna inferiore ai due anni di sospensione condizionale della pena. Ma fino a quattro non si va in carcere. Sborsi qualche spicciolo al tribunale in base a un’autocertificazione, ovviamente minimale. Una volta regolati i conti con la giustizia, ti vengono in soccorso la riabilitazione, la non iscrizione nel casellario penale e perfino l’arma, definitiva in età digitale, del diritto all’oblio sui motori di ricerca. Questo se ti va proprio male, e l’inchiesta non si prescrive, e non ci sono vizi di forma o altri bug di sistema, chi sa quanto innocenti, che la fanno crollare in un punto qualunque dei gradi di giudizio. Le manette e le lunghe villeggiature a San Vittore o a Regina Coeli sono un ricordo di trent’anni fa. Il costruttore Luca Parnasi, condannato in aprile con il rito abbreviato per lo stadio dell’As Roma, si è fatto mesi agli arresti nel suo ampio appartamento ai Parioli. E a Parnasi è toccato uno dei peggiori trattamenti dell’epoca recente.

Anche Tommaso Verdini è stato messo ai domiciliari il 28 dicembre 2023 per le tangenti all’Anas. Il quasi cognato del vicepremier Matteo Salvini nonché figlio di Denis Verdini, pluripregiudicato finito dietro le sbarre perché non gli andava bene nemmeno di scontare la pena chiuso in casa, aspetta il prossimo 7 novembre quando la sua richiesta di patteggiamento a due anni e dieci mesi sarà valutata dal tribunale di Roma. Nell’udienza del 10 ottobre l’Anas è stata ammessa come parte civile nel processo. Due settimane prima la società del gruppo Fs, che si occupa di strade e autostrade con un consiglio di amministrazione scaduto da mesi, ha licenziato l’ex ad Massimo Simonini perché indagato nel processo a Verdini junior. Prima di lui altri tre dirigenti Anas sono stati cacciati per lo stesso motivo.

Simonini, nominato su spinta del M5S a dicembre 2018, potrebbe anche essere archiviato ma l’Anas, che si considera parte lesa, ha optato per la via non troppo garantista del danno all’immagine aziendale. Per fortuna, c’è il ministero delle infrastrutture a compensare. Il dicastero guidato da Salvini, solidale con il suocero fino al punto di andarlo a trovare in prigione, ha mantenuto Simonini nella sua carica di commissario straordinario della E78 Fano-Grosseto, un’opera che vale molte centinaia di milioni di euro, e della statale 106 “Jonica” che unisce Reggio Calabria e Taranto, una delle strade più lente, trafficate e pericolose d’Italia. Da qui al primo semestre 2025 andranno a gara 3,5 miliardi di euro di lavori su due lotti della 106 con tanto di firma del protocollo di legalità contro le infiltrazioni mafiose fra Anas e sindaci, il 17 settembre 2024. Per completare il rinnovamento del tracciato lungo 491 km servono altri 15 miliardi. Il soggetto attuatore di questi lavori è Anas. Quindi Simonini, licenziato dall’Anas per giusta causa, ha i poteri per ordinare all’Anas che cosa deve fare, come e quando in base al decreto del governo Draghi del 16 aprile 2021, con Enrico Giovannini alla guida del Mit.

La bizzarria della situazione, oltre che dall’Espresso, è stata colta soltanto dal consigliere regionale Pd Ernesto Alecci, ex sindaco di Soverato, mentre sulla E78 alcuni sindaci umbri avevano chiesto la testa del commissario straordinario in agosto adducendo una mancata collaborazione fra la struttura di nomina governativa e gli enti locali.

In questo gioco di ruolo si profila un ulteriore ribaltamento. Entro novembre il Mit ha facoltà di cambiare i commissari straordinari alle opere stradali e di sostituirli con i capi delle strutture territoriali dell’Anas. In teoria, sulla E78 potrebbe dunque subentrare il responsabile della Toscana, Stefano Liani, che però è a sua volta indagato dai primi di ottobre per presunte tangenti e turbativa d’asta sui lavori della statale Tremezzina lungo il lago di Como e della statale Sebina nelle provincie di Bergamo e Brescia.

Al di fuori del settore cemento e asfalto, è difficile battere la Sogin di quest’ultimo triennio per i licenziamenti a raffica nel top management. Da non confondere con l’altrettanto pubblica Sogei, il cui dirigente Paolino Iorio è stato arrestato mentre incassava una mazzetta in contante da 15 mila euro, la Sogin si occupa di mettere in sicurezza le centrali nucleari dismesse e di trovare – impresa annosa, costosa e finora vana – un deposito nazionale per le scorie radioattive. Fra le vittime illustri dei provvedimenti disciplinari, ci sono l’ex ad Emanuele Fontani, cacciato all’inizio del 2024 dopo essere stato destituito dall’incarico a giugno del 2022 dall’allora ministro Roberto Cingolani, che aveva commissariato la Sogin, seguito da Fabrizio Speranza, responsabile dell’Ict, e infine da Luigi Cerciello Renna, l’ex Gdf responsabile dell’azione di “self cleaning” che avrebbe dovuto stroncare i comportamenti impropri all’interno dell’azienda. Sulla Sogin incombono varie inchieste della Procura di Roma. Le principali riguardano la commessa da 107 milioni di euro per lo smantellamento del Cemex di Saluggia nel vercellese e l’appalto da 42 milioni di euro complessivi concesso da Nucleco, controllata da Sogin, alla slovacca Javys per il trattamento dei rifiuti. I quattro manager Sogin licenziati al tempo del “self cleaning” di Cerciello Renna hanno peraltro vinto i ricorsi contro il provvedimento e sono stati risarciti a carico del contribuente.

Il caso di corruzione più clamoroso del 2024 riguarda l’ex presidente della Liguria Giovanni Toti. Il leader della coalizione di centrodestra è stato messo agli arresti domiciliari il 7 maggio 2024. Per ottanta giorni è rimasto in carica nonostante il provvedimento della Procura di Genova. Lo stesso vale per Matteo Cozzani, suo capo di gabinetto alla regione, arrestato per corruzione e abuso d’ufficio, il reato che la riforma del ministro Carlo Nordio punta a destrutturare. A settembre è arrivato l’accordo fra Toti e la pubblica accusa per un patteggiamento a due anni e un mese da convertire in lavori socialmente utili, probabilmente da svolgere nel parco naturale di Montemarcello in Val di Magra. Durante i suoi quasi tre mesi ai domiciliari e dopo la decadenza del consiglio regionale, Toti è rimasto in piena attività per definire le alleanze delle prossime elezioni. «C’era una lista Toti, oggi c’è una lista Bucci», ha dichiarato giorni fa all’Ansa l’ex presidente manifestando il suo appoggio al sindaco di Genova Marco Bucci, rimasto fuori dall’inchiesta giudiziaria. A giudicare dalle recenti apparizioni di Toti nei talk show televisivi, l’ex giornalista di Mediaset non sembra interessato a tornare al suo vecchio mestiere.

A proposito del lavoro di cronista, è rapidamente scomparso dai giornali nazionali il caso Venezia dove dallo scorso luglio il sindaco Luigi Brugnaro, esponente insieme a Toti della formazione centrista Noi moderati, è indagato per corruzione. L’accusa riguarda due cessioni. Quella di palazzo Poerio Papadopoli sul Canal Grande a un valore inferiore a quello di mercato di almeno un terzo e quella dei Pili, un’area acquistata dallo stesso Brugnaro diciotto anni fa. Secondo la Procura di Venezia, i due affari avrebbero favorito in modo illegale l’acquirente Ching Chiat Kwong, tycoon con base a Singapore. L’imprenditore asiatico avrebbe inserito nella compravendita una tangente da 60 mila euro dissimulata da una consulenza immobiliare fittizia a vantaggio di Renato Boraso. L’assessore alla mobilità della giunta Brugnaro, consigliere comunale dal 1997, è finito in carcere il 16 luglio e ha superato i tre mesi di detenzione.

«Mi ritengo totalmente innocente», ha dichiarato il sindaco in consiglio comunale, «e non mi dimetterò. No ai processi di piazza». Allo stesso tempo, Brugnaro ha del tutto sconfessato il suo assessore. «Urlandogli contro volevo fargli capire che il suo approccio, legato alla continua richiesta di appuntamenti e azioni da progettare, era sbagliato e superficiale, legato a un'attività politica fatta all'antica. Mi pare evidente dalle intercettazioni che non ero d'accordo col suo modo di fare». Brugnaro sta valutando la possibilità che il Comune si costituisca parte civile nel processo per corruzione, a dispetto della responsabilità politica di avere scelto un amministratore infedele e all’incapacità di cacciarlo, se proprio non era d’accordo con il suo modo di fare.

Eppure prevenire il fenomeno dovrebbe essere meglio che intervenire quando il danno è fatto. Di sicuro è un danno grave. Marta Cartabia, Guardasigilli del governo guidato da Mario Draghi e autrice dell’ultima riforma della giustizia appena due anni fa, si era espressa in modo netto davanti all’assemblea generale dell’Onu. «La corruzione è una minaccia globale», aveva detto la ministra nel giugno del 2021, «che mette alla prova le nostre società e le nostre economie. Ostacola la crescita economica sostenibile e distorce la concorrenza sul mercato, minando lo Stato di diritto e la fiducia tra cittadini e governi. Costituisce, inoltre, un grave ostacolo allo sviluppo della prosperità e della sicurezza dei nostri Paesi e le nostre comunità».

A qualche migliaio di chilometri dal Palazzo di Vetro dell’Onu a New York il cittadino osserva che nemmeno gravi responsabilità penali passate in giudicato fermano le grandi rentrées. Alle ultime elezioni europee si è ripresentato al seggio per votare Salvatore Cuffaro detto Totò, riabilitato dopo quattordici anni. L’ex presidente della Regione siciliana ed esponente della Democrazia cristiana era stato prosciolto dall’accusa di corruzione elettorale ma condannato in via definitiva a sette anni per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra. L’annullamento delle pene accessorie, ossia del divieto all’esercizio dei diritti politici e dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, consente a Cuffaro di votare e, se vorrà, di ritentare la via della candidatura.

D’altra parte, la legge è legge e i magistrati si limitano ad applicarla. In fondo, molti elettori esercitano il diritto democratico di votare un candidato che piace proprio per le sue attrattive clientelari.

In quanto ai manager, per loro è ancora più facile. Basta uscire dal settore delle aziende pubbliche. Secondo l’articolo 2635 del codice civile, la corruzione fra privati è procedibile d’ufficio da quando nel 2019 è stata introdotta la “spazzacorrotti”. Ma i precedenti della giurisprudenza sono pochi e la condanna va da uno a tre anni. Il massimo della convenienza.