La flotta guidata da Sir Franklin, leggendario capitano britannico. Svanita nel nulla due secoli fa. Una spedizione in forma letteraria fra cronaca, finzione, materiale d’archivio. Il romanzo di Luigi Guarnieri

È la ricerca di una ricerca di una ricerca. Sembra un gioco di parole ma andrebbe preso alla lettera: perché “Le navi perdute del capitano Franklin” (Einaudi) funziona come tentativo romanzesco di venire a capo di un mistero. Le navi del titolo, alla metà del diciannovesimo secolo, tentarono - guidate dal leggendario comandante britannico - di guadagnare il leggendario passaggio a nord-ovest. Niente. Scomparse nel buio e nel ghiaccio. Nella speranza di ritrovare vivo qualche membro dell’equipaggio, a cominciare da Sir Franklin, le ricerche cominciano subito. Soggette anch’esse a incidenti, a disfatte. Quasi due secoli dopo uno scrittore abituato a sfidare i misteri annidati nella storia, Luigi Guarnieri, mette in moto - tra fittissimo materiale d’archivio, cronaca e immaginazione - una spedizione ideale in forma letteraria. Che fine ha fatto Franklin? Che fine hanno fatto i suoi “cercatori”? Come in un quasi-giallo disseminato di indizi ma non di prove o certezze, Guarnieri dilata con la scrittura dettagli, frasi, lembi di testimonianze dirette, li connette, li ricuce. Ne risulta un maestoso quanto trasparente racconto della sfida umana all’ignoto: ribadisco, sia sul piano storico della spedizione fra i ghiacci, sia sul piano letterario. Di chi cerca, cioè, di risolvere un enigma con lo strumento (conoscitivo) del romanzo.

Il libro è disseminato di ritratti di gente che ha scommesso - più o meno titanicamente - sulla conoscenza, sulla luce della ragione, anche quando illuminata, secondo i parametri ideologici dell’epoca, dalla grazia divina. Se è successo qualcosa, dev’esserci una spiegazione. Se esiste un passaggio a nord-ovest deve esserci un modo di percorrerlo. Se non si sono ritrovati i corpi dei membri di un equipaggio, non si sono certo volatilizzati. Al momento di uscire dal tempo, uno dei grandi ostinati cercatori post-Franklin, C.F. Hall, viene raccontato come uno che destinò le sue energie più grandi in una impresa destinata al fallimento: e tuttavia, morendo, sereno, placido, “il grande capo” sembra finalmente ricongiungersi con quel paesaggio desolato che aveva amato più di ogni cosa, «con le sue tempeste di neve, i suoi venti stratosferici, i suoi immensi ghiacciai, i suoi iceberg torreggianti - un angolo selvaggio e incontaminato del mondo che aveva sentito così tanto suo da crederlo il paradiso interno». Se questa è la geografia che domina il romanzo, il cursore storico si muove avanti e indietro in un arco narrativo ampio che arriva fino quasi ai nostri giorni: a strumenti di ricerca più sofisticati che consentono di intestardirsi ancora su quel mistero. La sfida del venire a capo, del comprendere non è finita. Anche se qualche volta il narratore suggerisce che molte risposte erano forse a disposizione dei nostri trisavoli: i quali tuttavia, per presunzione e per quel po’ di colonialismo anche mentale che li condizionava e orientava, non hanno saputo riconoscerle nelle indicazioni delle popolazioni locali. Ridotte a comparse dai tronfi occidentali, ma in realtà depositari del genius loci che avrebbe illuminato o meglio guidato quelle menti ossessionate e ostinate. Se solo avessero compreso quella ricchezza di esperienza e di sguardo.