Ambiente
Popolo dei suv, la guerra è finita: il ciclista oggi non è più di sinistra
Tempo, soldi e salute spingono per la mobilità sostenibile su cui investono i ministri dello Sport e dei Trasporti. A dispetto di chi ripropone pericolosi cliché d’odio
A Milano ci si è fermati a una battuta di pessimo gusto. A Parigi invece si è arrivati all’omicidio. La tragedia è nata da un alterco banale, quando il guidatore di un suv ha invaso una pista ciclabile tagliando la strada a un attivista, Paul Varry. Il ciclista non ha lasciato correre, lo scontro verbale è degenerato ed è finito con l’automobilista che è passato, volontariamente, sul corpo del ciclista. Risultato: un morto che in Italia è sembrato una risposta agghiacciante alla recente battutaccia di Vittorio Feltri: «I ciclisti mi piacciono solo quando vengono investiti».
C’è voluta la cronaca nera per riaccendere il dibattito tra “popolo dei suv” e “popolo della bici” o, per buttarla in politica, tra automobilisti “di destra” e ciclisti “di sinistra”. Una contrapposizione ormai superata nei fatti: basta pensare che pochi giorni fa il ministro dello Sport Andrea Abodi ha lanciato con entusiasmo il progetto Bici in comune, nato in collaborazione con l’Anci, Associazione dei comuni italiani: il presidente è Roberto Pella, sindaco di Valdegno (Biella) e deputato di Forza Italia.
Il progetto si propone di «promuovere la bicicletta come strumento di mobilità sostenibile per migliorare la qualità della vita delle città e promuovere stili di vita sani e attivi», e la considera una «alternativa ecologica ai mezzi tradizionali». Il progetto è solo una parte di un investimento che coinvolge anche il ministero di Matteo Salvini: «I 12,6 milioni netti messi a disposizione per questo progetto», ha detto Abodi, «sono un inizio di investimenti pubblici che si dovranno collegare a quelli del piano sulla ciclabilità, che fa parte della mobilità sostenibile del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti».
«Noi collaboriamo con amministrazioni di tutti i colori», conferma Valeria Lorenzelli, vicepresidente e responsabile della mobilità quotidiana di Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta). Lorenzelli, che è architetto urbanista, è tra i promotori della certificazione dei “comuni ciclabili”, «una sorta di “bandiera blu” delle città “bike friendly”. Tra i 180 Comuni che hanno chiesto finora il nostro giudizio ce ne sono di tutti i colori politici».
E non potrebbe essere diversamente, dal momento che tutti siamo colpiti allo stesso modo dalla terna che spinge verso l’uso della bicicletta per gli spostamenti quotidiani: tempo, soldi e salute. Partendo dall’ultima voce, l’Università di Glasgow, che segue da 18 anni circa 80mila habitué dei diversi mezzi di trasporto, ha calcolato che chi va in bici ogni giorno è meno soggetto a cancro e malattie cardiovascolari: il risultato è un’aspettativa di vita più lunga, malgrado il maggior rischio di infortuni (+45% rispetto a chi non usa la bici: un dato allarmante che in tutto il mondo si cerca di ridurre con illuminazione e segnaletica “bike friendly”, percorsi protetti e limiti di velocità).
Per quanto riguarda il risparmio economico, l’aumento delle spese per carburante, parcheggio e costi fissi di un’automobile è uno stimolo sempre più potente verso l’uso della bicicletta. Per non parlare del tempo: da quando le app di indicazioni stradali calcolano anche il percorso in bicicletta, prima o poi chiunque si accorge che un percorso da 30 minuti in auto, in bici ne richiede solo cinque di più. E sono minuti “puliti”, mentre l’automobilista deve aggiungere il tempo per cercare parcheggio e quello per raggiungere poi, a piedi, la propria destinazione.
Tutto questo è vero ma non è certo una novità: e allora perché l’idea della bici “di sinistra” fatica a sparire dai “discorsi da bar”? Lo abbiamo chiesto a Eleonora Belloni, storica dell’università di Siena che alla “Modernizzazione su due ruote” ha dedicato un saggio recente. «È un preconcetto che ha radici storiche già all’inizio del Novecento, quando il socialista Ivanoe Bonomi definì la bicicletta “simbolo di democrazia”».
L’atteggiamento del fascismo è stato ambiguo: «All’inizio la si vede come un retaggio del passato, che sarà presto sostituito dalla modernità dell’automobile. Quando però il sogno di dare un’auto a tutti si infrange contro la realtà delle ristrettezze economiche e delle sanzioni per l’attacco contro l’Etiopia, le due ruote diventano una scelta obbligata, autarchica: tanto che, quando l’acciaio scarseggia, si arriva a sperimentare modelli con il telaio in legno». Con il boom economico la bicicletta sconta un’immagine di povertà – «Era il mezzo di trasporto che ricordava gli anni della guerra, rifiutato per il sogno dell’automobile» – e politica – «Non dimentichiamo quanto è stata importante per le staffette partigiane».
Ma pauperista certo non lo è più: «Con i prezzi che raggiungono alcune bici elettriche, pensare che chi le usa sia di sinistra non è così scontato», scherza Lorenzelli. Sono le MTB superleggere che affrontano la Maratona delle Dolomiti, dove ogni anno tra gli 8mila partecipanti spicca un drappello di manager e industriali che durante la settimana è facile immaginare in mezzo al “popolo dei suv”. Ed è una fortuna, perché la battaglia per città più ciclabili non si vince solo da sinistra. Anche grazie a una verità lapalissiana: che tanti ciclisti in più significano tante auto in meno, e quindi traffico più scorrevole per chi alle quattro ruote proprio non vuole rinunciare. E soprattutto per chi non può.