Da George Allen a Donald Trump, l'insulto pubblico è passato da errore fatale a strumento elettorale. Mentre l'ex senatore della Virginia pagò cara la sua offesa razzista, Trump ha costruito una piattaforma che fa dell'invettiva e del dileggio i pilastri della sua campagna.

La storia di George Allen era servita da lezione. Nel 2006 l’ex senatore della Virginia era un astro nascente della politica americana, al punto dall’essere considerato un degno pretendente Repubblicano per la corsa alla Casa Bianca. Ma fu l’illusione di un istante. Durante la campagna per il mid-term, Allen fece tappa a Breaks, un grazioso centro collinare in Virginia dove ad accoglierlo trovò una piccola folla di sostenitori ma anche un collaboratore del suo avversario, il Democratico Jim Webb. Il ragazzo aveva il compito di filmare l’intervento di Allen con una telecamerina (era geologica pre-smartphone). Durante il suo discorso pubblico, Allen aveva notato il 20enne di origini indianeaggirarsi sotto al palco e non aveva resistito: “Guardate questo tizio con la maglietta gialla che riprende ogni mia parola, mi segue ovunque e lavora per il mio avversario. Benvenuto nel mondo reale ragazzo, benvenuto in Virginia, macaco”.

Nei libri di storia quell’episodio viene trascritto come the macaca blunder, la madornale cantonata del macaco. Già perché per effetto di quell’insulto pubblico – dare della scimmia a un attivista di pelle scura del rivale – qualche giorno dopo George Allen annunciò mestamente l’addio alla campagna di rielezione al Senato. Fine dei sogni di gloria. Il video che il ventenne consegnò a una rete locale fece il girò degli Stati Uniti, decretando la fine di Allen.

Se anziché di politica parlassimo di energia è un po’ come se descrivessimo di quando i lampioni funzionavano con la cera d’api o l’olio di balena. Eppure non parliamo di due secoli fa, questa è storia che ha meno di 20 anni.

Quando Trump irruppe nella scena definendo i messicani e i latini in genere che attraversavano il confine a sud degli Usa, un branco di stupratori, in molti fecero riferimento alla “lezione di Allen”, convinti che l’ex Presidente l’avrebbe pagata caramente.

Alla vigilia di questo voto è piuttosto istruttivo scoprire che una gran parte dell’elettorato latinos sostiene proprio Donald Trump. I casi sono due: hanno la memoria corta oppure non permalosi. Inseriamo un terzo scenario: l’avvento dei social, lo sdoganamento dell’insulto come forma di espressione, il dileggio come piattaforma elettorale è diventata la nostra realtà.

Colpire con l’oltraggio giusto, fa crescere il numero di seguaci. Affondare gli artigli nel luogo comune dell’insolenza, rassoda il consenso.

Nello scontro frontale (a distanza) tra Trump e Kamala Harris, non è il candidato Repubblicano che si è dovuto adeguare ai toni più morbidi della rivale. L’esatto contrario, è Kamala che ha dovuto alzare il tiro per non sembrare inerme, debole e inadeguata a comandare. Certo, Kamala ha cercato di rimanere entro un perimetro di maggiore decenza, ma la sostanza non cambia, se definisci l’avversario “uno che non capisce nulla, se non se stesso”. Un “essere umano depravato”, un “predatore e colluso coi miliardari” (incassando al contempo 50 milioni a Bill Gates).

Trump ha definito Kamala “stupida come un sasso”, “una pazza pericolosa”, “incompetente comunista” e via andare.

Quando a New York un comico assoldato da Trump ha preceduto il discorso del candidato Repubblicano, definendo Porto Rico un’isola spazzatura, i Democratici hanno dovuto rispondere per le rime, descrivendo come trash, immondizia, la metà americana che voterà per Donald. Capire scelte e programmi in questo clima da curva perenne è un’impresa alla quale sempre più elettorato ha rinunciato. C’è nostalgia per i tempi del povero Allen ma anche un principio di tenerezza che si fa strada dell’animo. Di fronte a questo spettacolo, sentirsi dare della scimmia suona come uno straordinario complimento.