Dall'anno scorso 106 cronisti palestinesi sono stati arrestati senza accuse e sottoposti a violenze di ogni tipo, mentre 165 sono stati uccisi. Una strategia per nascondere ciò che accade nella Striscia, denuncia il sindacato Pjs. «C'è la volontà di annichilire e uccidere intenzionalmente i reporter testimoni scomodi dei gravi crimini del conflitto»

«Eravamo come pecore. Ci hanno costretto a spogliarci. Poi dopo averci picchiato duramente, ci hanno gettati uno sopra l’altro. Eravamo in 50, 60 sul camion che ci avrebbe trasportato nel centro di detenzione». Per Abu Sharia, giornalista di Gaza City, i fatti di quel giorno scorrono nella sua testa ogni notte come le scene di un film. «Come potrei dimenticare?», sospira.

 

La discesa all’inferno per Ali Abdul Aziz Muhammad Abu Sharia è cominciata il 25 gennaio di quest’anno. Aveva lasciato da poco il quartiere di Sabra ed era diretto con la famiglia verso Sud, dopo l’ennesimo ordine di evacuazione dell’esercito israeliano. Fermato sulla strada dai soldati, Sharia si è subito dichiarato per quel che è: un giornalista. Ma a Gaza, dove la vita vale davvero poco, e quella di un giornalista palestinese ancora meno, appartenere alla categoria non protegge, anzi. Oggi è al sicuro, ma le settimane di detenzione alle spalle lo hanno spezzato fisicamente e psicologicamente.

 

La storia di Sharia e quelle di altre decine di reporter palestinesi sono state raccolte in un rapporto che il sindacato dei giornalisti palestinesi Pjs presenterà nei prossimi giorni. A partire dai tragici fatti del 7 ottobre dell’anno scorso, sono oltre un centinaio gli operatori dell’informazione palestinesi finiti nelle carceri israeliane, spesso con l’unica colpa di svolgere il loro mestiere. Già perché nella guerra più grande che si combatte a Gaza, Cisgiordania, e ora anche in Libano, c’è la guerra parallela che Israele sta muovendo all’informazione. Oltre ai 165 morti accertati tra i giornalisti palestinesi (oltre il 10 per cento di quelli presenti a Gaza) e la distruzione degli uffici di corrispondenza della Striscia, il Psj ha monitorato 106 casi di giornalisti arrestati. La metà è ancora in prigione. Altri due risultano dispersi dopo essere stati tratti in arresto. Gran parte dei giornalisti e delle giornaliste arrestate non ha mai ricevuto accuse formali. Alcuni sono precipitati in quella che, con un eufemismo, le autorità israeliane chiamano «detenzione amministrativa»: il sistema con cui la polizia israeliana può trattenere per mesi, a volte per anni, i civili palestinesi senza capi di imputazione.

 

Per il sindacato, il carcere è diventato un altro modo per ridurre al silenzio la stampa. Non a caso, il titolo del rapporto è “Silenziare le voci”. L’Espresso ha potuto visionare il documento e può raccontare alcune di queste storie in anteprima. «Gli attacchi alla stampa – spiega Shuruq Asaad, portavoce del Pjs – sono sempre stati sistematici. Quello che è cambiato dal 7 ottobre è la volontà di annichilire e in svariati casi di uccidere intenzionalmente i reporter in quanto testimoni scomodi dei gravi crimini commessi in questa guerra. L’altro cambiamento è nell’atteggiamento della comunità internazionale: avvertiamo un silenzio assordante. Ci sentiamo soli davanti a tutta questa violenza».

 

Il rapporto passa al setaccio le gravi violazioni a cui i giornalisti sono stati sottoposti una volta arrestati. I fermi sono quasi sempre brutali, con porte sfondate e case perquisite all’alba, con i giornalisti a volte picchiati davanti ai loro familiari. Metodi che, secondo il sindacato, vengono usati deliberatamente per terrorizzare non solo i giornalisti ma anche le loro famiglie. Denudati, vengono poi trasportati senza il più elementare rispetto della dignità umana. «Durante il mio trasferimento da casa – ricorda il fotogiornalista Moaz Ibrahim Amarneh, catturato il 16 ottobre del 2023 in Cisgiordania e rimasto in detenzione amministrativa per 9 mesi – sono stato sottoposto a percosse e minacce, e usato come scudo umano durante gli scontri avvenuti lungo il percorso. Al centro di detenzione di Megiddo, sono stato picchiato fino a perdere conoscenza». Imprigionati, i giornalisti finiscono in un tunnel di violenza. Legati con cavi metallici per 24 ore su 24, sottoposti a interrogatori brutali, a volte con l’impiego di cani e bastoni, a pestaggi nelle celle o a violenze anche sessuali, privati delle condizioni di igiene più elementari. Il 60 per cento dei prigionieri soffre di malattie della pelle come la scabbia. La mancanza di cure è uno dei tanti mezzi per “punire” i giornalisti. «Ho chiesto invano di essere trasferito in ospedale a causa di una vecchia ferita alla testa e della mia necessità di cure per il diabete – racconta Amarneh – ho sofferto molto e a un certo punto ho avuto paura di finire nel “sacco nero” (il sacco dei cadaveri, ndr). Ho visto per la prima volta un medico dopo quattro mesi».

 

L’assistenza legale ai giornalisti è quasi sempre interdetta. «Non possiamo visitarli in prigione – spiega Asaad – l’ingresso viene rifiutato anche ai legali, anche se qualche avvocato è entrato. La Croce Rossa, come tutte le organizzazioni per i diritti umani, è stata, a mio avviso, deludente. Israele vieta loro dal 7 ottobre di fornire qualsiasi informazione sui nostri colleghi, e la Croce rossa in risposta non ha finora rilasciato alcuna dichiarazione. Questo è pericoloso perché rafforza la convinzione di Israele di andare avanti su questa strada». Sharia ricorda la fame patita: in 23 giorni ha perso 18 chili di peso. Quasi un chilo al giorno. Amarneh in carcere ne ha persi 30. «La quantità di cibo era molto scarsa. I pasti venivano distribuiti a dieci o a sedici persone, a seconda del numero di persone in cella, ed erano appena sufficienti per una persona. Il cibo era malsano». L’appello dei giornalisti palestinesi è rivolto alla comunità internazionale. Asaad: «In tutto il mondo i giornalisti sono protetti, qui siamo diventati un target, l’obiettivo legittimo di una guerra sporca. Come può il mondo tacere davanti a tutto questo?».