Un un’epoca in cui tutto è astratto e la tecnologia che ci fa scoprire il mondo resta per molte persone ancora qualcosa di opaco, sembra necessario tornare ai fondamentali e cercare di ricordarsi perché la materia e i materiali siano così importanti». Carolyn Christov-Bakargiev – che negli ultimi anni, tra le tante cose fatte, è riuscita a portare bellezza e cultura a Torino dirigendo prima la GAM (la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea) e poi il Castello di Rivoli e la vicina Fondazione Cerruti – consiglia di partire da questo ragionamento per capire l’attualità e l’importanza della mostra da lei curata a Parigi nella scenografica Bourse de Commerce, sede della Collezione Pinault.
Arte Povera, questo il titolo della grande mostra - visitabile fino al 20 gennaio del prossimo anno – ripercorre, come non è stato mai fatto prima, la storia e l’evoluzione di quel movimento artistico nato in Italia negli anni Sessanta, caratterizzato dall’uso di materiali semplici e naturali (terra, pietra, legno e metallo), per sfidare le convenzioni dell’arte tradizionale, ricordandoci quanto abbia contribuito alla riflessione odierna su temi ecologici, sociali e culturali oltre che artistici.
I suoi protagonisti cercarono di creare opere che fossero in dialogo con il contesto naturale e sociale, enfatizzando così l’importanza della materia e dell’esperienza sensoriale. Tutti consideravano l’arte come una forma di pratica empirica più che una filosofia astratta. «L’arte era per loro un qualcosa di reale e di vivente, non mimetica o rappresentativa», aggiunge la curatrice. «Era fondamentale che fosse autentica, frutto di un’esperienza di verità e di accordo tra i nostri valori fondamentali e le nostre azioni, non quindi un’espressione superficiale o convenzionale ripetuta».
Tutto ebbe inizio nel giugno del 1967, quando un giovanissimo Fabio Sargentini inaugurò nella galleria Attico di Roma una collettiva dal titolo Fuoco Immagine Acqua Terra, a sua volta figlia di due personali conclusesi poco prima: nuove sculture di Pino Pascali e Il Giardino, I Giuochi di Jannis Kounellis. «In quel momento», spiega Carolyn Christov-Bakargiev durante la visita, «accadde qualcosa che non era mai stato visto prima: l’ingresso, e quindi l’utilizzo, di elementi naturali e vivi - che respirano, come disse lo stesso Kounellis - nella costruzione dell’opera d’arte, conquistando lo spazio espositivo. In quella sera estiva venne inaugurata la stagione cosiddetta “povera” dell’arte italiana, benché ancora nessuno sapesse che si sarebbe chiamata così. Per avere quel nome, si dovette aspettare qualche mese, quando quei due termini separati solo dalla scrittura furono usati insieme per la prima volta dal critico Germano Celant nell’articolo Appunti per una guerriglia, uscito su Flash Art e anticipato da una mostra alla Bertesca di Genova intitolata Arte Povera IM-Spazio. Da allora, niente fu come prima».
Celant scrisse che fu “una rivoluzione”, una maniera per certi artisti di uscire dagli schemi. Un’arte nuova, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico e con il presente, con l’uomo reale che torna ad essere il fulcro e il fuoco della ricerca, non più il mezzo e lo strumento. L’artista c’è e si fa sentire, rifiuta ogni etichetta e si identifica solo con sé stesso. «L’Arte Povera è stato ed è uno state of mind», aggiunge la curatrice mentre insieme a Emma Lavigne, direttrice generale della Collection Pinault, ci fa provare i Microfoni che Gilberto Zorio realizzò nel 1968 , protagonista della mostra insieme ai suoi colleghi viventi - Michelangelo Pistoletto, Giuseppe Penone, Giulio Paolini e Pier Paolo Calzolari - e a chi non c’è più - Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario e Maris Merz, Pino Pascali ed Emilio Prini – per un totale di 250 opere che caratterizzano a loro modo tutti gli ambienti espositivi della Bourse de Commerce, provenienti dalla Pinault Collection, ma anche dagli archivi del Castello di Rivoli, del Kunstmuseum Liechtenstein-Vaduz, del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli, della Galleria d’Arte Moderna di Torino, del vicino Centre Pompidou e della Tate di Londra.
Ogni artista è associato a una personalità, a un movimento, a un’epoca o a un materiale che lo ha ispirato. Ad accogliere, all’ingresso su rue du Louvre, è l’opera Idee di pietra-1532 kg di luce (2010) di Giuseppe Penone, un albero in bronzo con pesanti pietre di fiume, i cui rami suggeriscono i percorsi del nostro pensiero e le masse il peso dei nostri ricordi – e la Sequenza di Fibonacci (1984) con cui Mario Merz analizzava il nostro universo, ricordandoci che anche il numero più grande immaginabile si ottiene solo iniziando dal numero uno. Dentro l’edificio, luminosissimo, il cuore della mostra è la rotonda centrale, dove una presentazione collettiva evoca il rinomato Deposito d’Arte Presente, uno spazio commerciale preso in prestito a Torino che ha fornito le basi per le sperimentazioni radicali degli artisti con materiali, oggetti e idee. Lavorando in modo indipendente ed esponendo insieme, gli artisti hanno alimentato uno spirito collettivo, aprendo la strada a una forma d’arte che oggi chiameremmo installazione, termine che loro però non usarono mai.
«Quello non è una scultura, non è un dipinto», precisa Christov-Bakargiev. «È un luogo, non uno spazio, un luogo senza bordi né confini dove lo spettatore è come un attore su un palcoscenico artistico». Da quell’insieme centrale ci spostiamo nelle tredici mostre personali dedicate ai singoli artisti, tredici in una che le comprende tutte, tra pezzi noti ed altri molto rari. In spazi nascosti, ma perfetti, ci sono i dodici artisti – affermati, mid-career e giovani che continuano idealmente questa “avventura”: David Hammons, William Kentridge, Jimmie Durham e Anna Boghiguian dagli anni Ottanta; Theaster Gates, Pierre Huyghe, Grazia Toderi e Adrián Villar Rojas dagli anni Novanta; l’italiano Renato Leotta, Garcia Torres, Agniezska Kurant, Otobong NKanga e D Harding dai 2000.
Lungo il Passage del museo spicca inoltre una serie di 24 vetrine antiche in legno e cristallo con libri e fotografie. Il risultato è una retrospettiva imperdibile che si proietta nel presente, carica di proprietà e virtù da utilizzare per difenderci dalla spersonalizzazione propinata dalla società attuale. Una mostra necessaria per chiarire anche che l’Arte Povera non si è mai occupata di realizzare opere con materiali poveri, come suggerisce il nome. Si tratta perlopiù di trasformazioni energetiche della materia che permettono di percepire che anche l’opera è viva come noi - almeno nel presente – consentendo una comprensione fenomenologica della vita come qualcosa in uno stato di costante cambiamento.