La sterzata sul fossile, il disimpegno dai patti sulla riduzione delle emissioni costringe anche l’Europa a rivedere i piani. Del programma Biden resta solo ciò che serve all’industria. Chi ha scommesso sulla fine dell’era verde ha già guadagnato un miliardo. E a Baku una Cop 29 in sordina si prepara all’ennesima conta dei disastri. Passati e previsti

Come Nerone guardava bruciare Roma mentre immaginava i fasti della sua futura reggia dorata sulle ceneri di un’epoca consumata, così il neoeletto presidente degli Usa Donald Trump potrebbe presto osservare il mondo andare in fiamme, o affogare sott’acqua, mentre progetta quel domani che vuole a sua immagine e somiglianza. Un domani in cui il petrolio statunitense estratto dalle pietre garantisca agli Usa energia a basso costo per le sue fabbriche a dispetto delle isole del Pacifico che annegano e del Mediterraneo che soffoca; in cui le pale eoliche, definite «orribili», spariscano dall’orizzonte in tandem con gli avversari politici indesiderati e dove le auto elettriche, protagoniste di una transizione definita «verso l’Inferno», siano ammesse solo nella misura in cui favoriscono gli interessi economici dei suoi più fedeli e generosi alleati. «La stabilizzazione del riscaldamento climatico al di sotto del grado e mezzo sarà probabilmente impossibile con Trump», avverte il climatologo americano Michael Mann dell’università della Pensilvania nei giorni in cui si svolge in sordina a Baku, nell’Azerbaijan, la ventinovesima edizione della conferenza per il clima. E nell’anno, il 2024, che, secondo Copernicus, il programma spaziale dell’Unione Europea, è stato il più caldo della storia umana. Cosa vuol dire per il mondo noi europei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, e lo possiamo ignorare solo chiudendo colpevolmente gli occhi: le piogge torrenziali in Spagna che il mese scorso hanno devastato Valenza, ucciso 223 persone e aperto un buco di 20 miliardi di euro nel Pil della Spagna, l’equivalente di una manovra finanziaria. Ma anche l’alluvione del 2023 in Emilia Romagna che ha provocato danni per 9 miliardi di euro e quelle nella regione a cavallo del Belgio e della Germania che nel 2022 erano state responsabili di oltre 200 morti e complessivamente 30 miliardi di perdite. La situazione peggiorerà soltanto, diventando realtà distopica, tanto che ogni Stato europeo ha iniziato a lavorare ai piani di adattamento al cambiamento climatico, non bastando più quelli per la riduzione della sua velocità. In Spagna, l’agenzia per le emergenze sta addirittura considerando di organizzare corsi di sopravvivenza alle inondazioni nelle scuole elementari, esattamente come avviene negli Usa per la difesa contro gli attacchi a mano armata. Eppure Trump ha definito il cambiamento climatico «uno dei più grandi imbrogli di tutti i tempi». Durante il suo primo mandato aveva abrogato oltre 100 norme ambientali varate da Barack Obama e aveva fatto uscire gli Usa dagli accordi di Parigi. Adesso, oltre ad abbandonare nuovamente gli accordi di Parigi, potrebbe cercare di ritirare gli Stati Uniti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, che è la base dei colloqui internazionali sul clima. Un ritiro da tale trattato renderebbe quasi impossibile per una futura amministrazione rientrarvi perché occorrerebbe il consenso dei due terzi del Senato. «Gli Stati Uniti hanno votato per continuare la loro perdita di potere a lungo termine a livello internazionale, sostenendo le industrie dei dinosauri fossili e non quelle della crescita e della prosperità future», ha detto Simon Lewis, professore delle Scienze del cambiamento globale presso la University College London (UcL). Non è un caso che all’indomani dell’elezione di Trump a 47esimo presidente degli Usa, i fondi d’investimento che hanno scommesso sul crollo delle azioni delle società leader nell’energia rinnovabile abbiano guadagnato oltre un miliardo di dollari. Durante l’amministrazione di Joe Biden, gli Usa si erano invece impegnati a finanziare (con 11 miliardi solo nel 2024) l’adattamento ai cambiamenti climatici e la produzione di energia pulita dei Paesi più poveri da cui nei prossimi anni saranno costrette ad emigrare 120 milioni di persone. Gli impegni presi nei primi due anni della sua presidenza avevano raggiunto i 14 miliardi di dollari rispetto ai 12 di tutta l’ex presidenza Trump. Adesso è quasi scontato che il mantello della leadership climatica e della nuova industria verde – che non si arresterà a livello globale – passi alla Cina. E non è un fatto positivo. Sebbene negli ultimi 15 anni Pechino abbia installato e esportato più pannelli solari e pale eoliche di qualsiasi altro Paese del mondo, ha anche contribuito al 90 per cento della crescita delle emissioni di Co2, continuando a operare le sue miniere di carbone. Senza contare che ha in programma di aprire 20 nuove centrali nucleari in nome della sufficienza energetica. In breve, per la Cina l’energia pulita è solo una questione di business, certamente non un gesto di responsabilità nei confronti del Pianeta. Eppure se Trump fosse convinto dalla sua corte di uomini d’affari ad adottare lo stesso approccio mercantilista, il mondo potrebbe evitare la catastrofe assoluta.

 

 Entrata in vigore nel 2022, all’indomani della pandemia per canalizzare verso la transizione energetica i massicci aiuti alla ripresa economica post-Covid, la “Legge per la riduzione dell’inflazione”, o Ira, fortemente voluta da Joe Biden, in soli due anni ha trasformato gli Usa in un mercato di punta per gli investimenti nell’energia pulita. Secondo il Clean investment monitor, un progetto di monitoraggio della transizione dell’istituto di ricerca Rhodium Group e del Massachusetts institute of technology (Mit), l’Ira ha accelerato il ritmo di decarbonizzazione del Paese stimolando addirittura 450 miliardi di dollari di investimenti privati dal momento della sua approvazione. Trump, alla ricerca di sostegno politico per la sua rielezione, l’ha definita una «nuova truffa verde» e ha giurato di mettere fine ai 370 miliardi di dollari di sostegno federale all’energia pulita previsti dalla legge, di bloccare i progetti eolici offshore e i sussidi per i veicoli elettrici, sostituendoli con maggiori aiuti ai settori dell’energia fossile. Così, secondo lui, l’inflazione, che tanto peso ha avuto in queste elezioni, tornerà sotto controllo e l’America sarà «di nuovo grande». Ma la cancellazione dell’Ira, nelle stime di Wood Mackenzie, una delle principali società americane di consulenza per la transizione energetica, aggiungerebbe 500 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica entro il 2030, stracciando la promessa di Biden di dimezzare le emissioni rispetto ai livelli del 2005 entro il 2050. Se la fine dell’era delle pale eoliche in mare sembra scontata con Trump, anche perché la loro installazione richiede un’autorizzazione federale a differenza di quelle su terra, non è chiaro in che misura l’Ira potrà davvero essere completamente smantellata. Non tutti sanno infatti che la principale legge dell’era Biden ha beneficato soprattutto gli interessi economici degli Stati rossi. Tre quarti degli investimenti verdi finanziati dall’Ira sono in via di realizzazione nei distretti repubblicani, (268 miliardi di dollari rispetto ai 77 andati nei distretti democratici), che sono molto più rurali e, estendendosi su lande vastissime, permettono la costruzione di vaste aree industriali. Così la Georgia, l’Arizona, il Texas, dove Elon Musk sta costruendo la sua seconda fabbrica, stanno avendo un massiccio influsso di lavoratori che si riversano nelle fabbriche di veicoli elettrici e batterie finanziati dall’Ira. Nella Georgia del repubblicano Barry Loudermilk, la Hyunday e la Skl Battery America hanno annunciato un’enorme fabbrica di veicoli elettrici che creerà più di 3.500 posti di lavoro. «Politicamente non conviene fermare gli investimenti previsti e la creazione di migliaia di posti di lavoro», dice Susi Dennison, ricercatrice dello European council of foreign relations: «È più probabile che i sussidi verdi siano accompagnati da ulteriori aiuti ai settori fossili e che la legge anziché avere per obiettivo la decarbonizzazione degli Stati Uniti sia ricalibrata sulla creazione di impiego». Intanto l’International energy agency ha annunciato che gli investimenti mondiali in tecnologia pulita quest’anno doppieranno quelli fossili, gas incluso. «Certo il risultato delle elezioni Usa provocherà un rallentamento della carbonizzazione mondiale – continua Dennison – ma non fermerà la decarbonizzazione dell’economia». Che semplicemente procederà più lentamente. 

 

L’Europa dal suo canto non ha altra grande scelta che continuare lungo il percorso del cambiamento, continuando a investire nel Green Deal, garantendo alle aziende un quadro economico certo, così come ha ribadito anche l’attuale e futuro commissario per l’ambiente Wopke Hoekstra durante le audizioni di conferma in Parlamento la scorsa settimana. Una Bruxelles alle prese con l’America di Trump e i suoi fantasmi neri all’interno, potrà cedere invece su qualche scadenza, come già ventilato dal primo ministro francese, Michel Barnier, a proposito di un posticipo di tre anni per l’entrata in vigore di parte della legislazione verde: l’anno prossimo sbarcherà sul tavolo delle discussioni la revisione della data del 2035 prevista per la fine della vendita dei motori a combustione. Ma il rischio più grande dell’influenza trumpista sul nostro Patto Verde sarà soprattutto la sua dimensione sociale. Ora che lo stesso è cambiato in “Patto verde industriale” per renderlo più appetibile a imprese e consumatori, l’attenzione si è spostata sui vantaggi economici e politici offerti della transizione. Così, in un momento in cui le spese per la Difesa sono in rapido e massiccio rialzo, il rischio è che rimanga poco spazio fiscale con cui attenuare le inevitabili conseguenze economiche della transizione sulle fasce sociali più deboli. Che, a forza di correre dietro alle sirene dei negazionisti infervorati, per «fare grande la loro America», rischiano di rendere piccolissima la loro vita.