Un’insegnante sfida l’ottuso regime iraniano. Nel film “Leggere Lolita a Teheran”. La protagonista, esule, vive a Parigi: “Mi ispiro a Gandhi, Mandela e agli altri grandi ribelli”

La sofferenza e la lotta delle donne e degli uomini iraniani continuano. Anche quando le notizie spariscono dai media la resistenza non si ferma e la lotta per la liberazione va avanti. Potranno imprigionarci, picchiarci, ucciderci, ma la storia finirà con la vittoria di tutti coloro che si sono ribellati all’oppressione». Lo dice con lo sguardo velato di lacrime Golshifteh Farahani, l’attrice iraniana naturalizzata francese, nel commentare l’arresto della studentessa iraniana che per protesta contro l’obbligo del velo si è spogliata nel cortile del dipartimento di Scienza e Ricerca dell’Università Azad a Teheran. Anche Farahani si ribella all’imposizione del velo nel toccante “Leggere Lolita a Teheran” di Eran Riklis, tratto dal bestseller di Azar Nafisi e dal 21 novembre al cinema. Interpreta la professoressa-coraggio Na- fisi, determinata a formare allieve colte e libere, contro il regime fondamentalista islamico che le vorrebbe asservite.

 

Perché le donne fanno ancora paura?
«Dall’alba dei tempi le società patriarcali mirano a controllarci. Si opprime e si mira a controllare l’altro quando si ha paura di perdere il potere: per un uomo sicuro di sé, e del suo potere, una donna non è mai una minaccia. Ho conosciuto uomini più femministi di certe donne, pronti a lottare per la parità dei diritti di tutte».

 

Nel film le donne sono divise: da una parte professoressa e studentesse mirano a salvaguardare la propria libertà, dall’altra donne feroci con queste ultime, pronte a giudicarle, minacciarle, denunciarle.
«Pensiamo sempre che la lotta per l’emancipazione debba essere tra sessi, donne contro gli uomini, in realtà è una lotta di donne e uomini insieme contro l’ignoranza. Anche le donne possono essere ignoranti e aggressive, lo vedo su Instagram, i commenti più violenti sono delle donne».

 

Non dev’essere stato facile per lei interpretare una donna che alla fine sceglie di lasciare l’Iran, come ha fatto lei nella realtà.
«Non è mai facile, nelle scene dei bombardamenti ripensavo a quando da piccola li vivevo davvero con i miei genitori. Lasciare il proprio Paese è sempre complesso, in un certo senso questo film è stato terapeutico perché ho potuto ripercorrere tutte le tappe: il disagio per l’oppressione, il momento in cui l’hijab divenne obbligatorio e in cui nacque la rivoluzione. È stato un rivivere tutto, un risentire tutto nella pancia». 



Più liberatorio o doloroso?
«Entrambi. Senza dolore non c’è liberazione possibile. Bisogna pagare un prezzo, in genere molto alto, per la propria libertà. Chi non intende passare attraverso la sofferenza non può pensare di essere libero, almeno non in Iran».

 

La resistenza iraniana sta andando avanti.
«Soprattutto grazie alle nuove generazioni che sono coraggiose, molto più di noi, stanno facendo quello che noi non siamo stati in grado di fare. È come se ogni generazione desse una spinta in più alla stessa porta, come fosse il muro di Berlino, e a un certo punto questo muro cadrà».

 

Una battuta nel film recita: «Puoi fuggire dall’Iran, ma l’Iran resterà sempre con te». 
«La nostalgia c’è sempre, è come quando perdi un bambino, c’è un buco che nessuno potrà riempire. Non c’è mai un giorno in cui dico: «Okay». Non è mai okay, il dolore è sempre lo stesso, ma se all’inizio mi soffocava oggi ci convivo e concedo spazio ad altro, ma l’Iran mi mancherà sempre». 

 

Diventare una donna indipendente le è costato caro.
«Nascere in Iran mi ha insegnato la ribellione sin da piccola. La società è guidata dagli uomini, le leggi sono a favore degli uomini, per questo se nasci donna sin dall’inizio sei abituata a non accettare e, anche se sei costretta a obbedire, dentro sai che non è giusto. Le donne più potenti del mondo vengono dai Paesi più oppressi, perché sanno cosa vuol dire ribellarsi e contare solo sulle proprie forze, senza essere sostenute, e quand’è così nessuno può fermarle».

 

Come hanno reagito alla notizia della sua partenza i suoi parenti e amici rimasti in Iran?
«All’inizio non è stato semplice, mi sono presa una pioggia di insulti per anni. C’è voluto tempo, sono stati anni terribili ma il tempo sa rivelare la verità. Oggi sono vista come un simbolo di liberazione, resistenza e lotta per la libertà».

 

I suoi modelli di vita quali sono?
«I grandi ribelli. Mandela, Gandhi, tutti coloro che si sono battuti per una causa e ce l’hanno fatta. Mi sono stati di ispirazione nel lottare senza aspettarsi il risultato, perché magari lo otterranno solo le prossime generazioni».

 

Nel frattempo è riuscita a costruirsi una carriera di tutto rispetto.
«Non amo le etichette, vedo anche la carriera con grande libertà, come un cerchio attorno al quale girare. Non disdegno blockbuster o serie pop come “Tyler Rake” (su Netflix, ndr), anzi mi piace il fatto che siano molto fisiche e mi richiedano allenamento. Sto girando il nuovo film di Julia Ducournau “Alpha”, appartengo a tutti e a nessuno, scelgo sempre di testa mia». 

 

Cosa direbbe oggi alla ragazza che in Iran sentiva l’oppressione e non sapeva che un giorno avrebbe lasciato il suo Paese continuando a combattere?
«Le direi che potrà rilassarsi e non avrà bisogno di lottare così duramente per la propria esistenza (si commuove, ndr). Che sarebbe giusto che potesse semplicemente vivere, giocare, lasciare che gli altri si prendessero cura di lei ed essere una bambina libera e felice».