La violenza ha colonizzato tutto, immaginari e parole. Ma se tuttɜ parlano perde il suo valore

Il 23 Novembre, in vista della Giornata internazionale contro la violenza patriarcale sulle donne e di genere, la rete di Non Una di Meno ha chiamato due manifestazioni nazionali, una a Roma e una a Palermo, sotto lo slogan “Disarmiamo il Patriarcato”. La piazza del 23 esplicita come la macchina economico-industriale guerra- fondaia si è sempre nutrita della guerra alle donne: «La guerra, che viviamo in diretta, diventa paradigma delle relazioni sociali: normalizza la violenza, disumanizza i corpi, cancella i percorsi di liberazione in nome della logica del nemico che tutto schiaccia. Diventa economia di guerra, taglia i servizi fondamentali come la scuola e la sanità per finanziare il grande business del riarmo, cancella i diritti in nome della difesa della Nazione. Ci ribelliamo alla guerra come espressione più brutale della violenza patriarcale».

 

Per la stessa ricorrenza l’anno scorso mezzo milione di persone sono scese in piazza a Roma anche a seguito del femminicidio, mediatizzato, di Giulia Cecchettin. Migliaia di persone si sono sentite in qualche modo coinvolte da quello che si era detto di Giulia. Sicuramente parte del merito va alla sorella Elena: da subito ha parlato di «delitto di potere», di «figli sani del patriarcato» e questo non ha solo risuonato in chi conosce quel linguaggio, ma in tuttɜ coloro che sono state mosse dalla potenza e lucidità di chi ha la responsabilità politica, prima che familiare, di chiamare le cose con il proprio nome. Elena Cecchettin ha detto tutte le cose giuste e questo chi voleva spettacolarizzare la morte di Giulia (e le sue presunte colpe) non se l’aspettava. Ovviamente è stata trasformata in un mostro (o una «satanista») perché discutendo di femminicidi non si era forse mai passato il microfono ad una femminista (se non forse per parlarle sopra). Elena ha esplicitato il motivo per cui «il gender nelle scuole» fa così paura: se ogni sorella o genitore di una vittima di femminicidio esplicitasse, nel quotidiano, le maglie e le strutture, la macchina s’incepperebbe: il patriarcato trae la sua forza dall’omertà intorno a una violenza che ha colonizzato tutto, anche gli immaginari e le parole. Il patriarcato è una setta omertosa e mortifera, per questo nominare i processi è una pratica radicale, estirpa la violenza sistemica alla radice. Se tuttɜ parlano, il patriarcato perde il suo valore simbolico.

 

Dal femminicidio di Giulia, l’Osservatorio Nazionale Non Una di Meno ha registrato più di un centinaio di femminicidi, transicidi e lesbicidi. Diversamente da come crede chi dice cose come «nazifemminismo» o «statisticamente muoiono più uomini», troppɜ di noi vengono ancora uccise solo per chi sono e quindi noi «guardiamo con sospetto ai riti collettivi che assolvono la società dalla responsabilità di queste morti» (Non Una Di Meno, 2024). In “Femminismo Bastardo” Maria Galindo scrive che «il femminismo non è un progetto di diritti per le donne, è un progetto di trasformazione sociale» (Mimesis, 2024). Affinché questo accada c’è bisogno di transfemminismi al plurale: una moltitudine di voci, vissuti e strategie che rioccupano, capillare per capillare, tutto lo spazio che è stato tolto storicamente alle soggettività libere. Il 23 novembre si scende in piazza per Giulia e per le altre centinaia di donne, trans e lesbiche che sono state uccise dopo di lei. Si manifesta contro un’economia di guerra che ci convince che ci sono soggettività che non contano e alcune, innominate, che contano ancora di meno.