L'intervista
Caso dati rubati, Gabrielli: «Molti spioni, nessun burattinaio»
L'ex capo della Polizia, nonché già delegato alla Sicurezza della Repubblica e direttore dei Servizi segreti interni, è il padre dell'Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza e ne parla come un'occasione persa: «È in mezzo a litigi e dispetti sulle competenze»
Dice Giorgia Meloni: «Il dossieraggio, nella migliore delle ipotesi, configura i reati di ricatto ed estorsione ma, nella peggiore, è eversione. Uno Stato di diritto non può tollerarlo. Mi aspetto che la magistratura vada fino in fondo». Franco Gabrielli, siamo a questo livello di allarme, siamo tornati agli anni bui della Repubblica?
«Io rifuggo dagli estremismi e dalla rappresentazione estrema delle situazioni. Mi riesce complicato, anche per la mia esperienza immaginare che queste cose possano ascriversi a questo tipo di situazioni o fattispecie di reato. Non credo ci sia un pericolo di eversione. Credo invece, in maniera più preoccupata, che esista un tema della sicurezza dei nostri sistemi informatici, delle nostre banche dati, del controllo che dovrebbe essere posto in essere nei confronti di chi utilizza questi strumenti così sensibili».
Al prefetto Gabrielli, già capo della Polizia, dei Servizi segreti interni, sottosegretario delegato alla Sicurezza della Repubblica, cosa racconta l’inchiesta di Milano sulla banda di via Pattari 6 che ha bucato le banche dati in teoria più protette?
«Rappresenta la dimostrazione plastica del valore dei dati che, nel nostro tempo, hanno un valore economico e reputazionale importante. I dati possono essere utilizzati per ricattare in ogni ambito, individuale e societario e anche politico. Le attività di questa agenzia erano abbastanza ampie, si andava dal competitor commerciale al competitor politico fino al competitor amoroso».
La fabbrica dei dossier a Milano, l’hacker Miano che spiava i magistrati, un ufficiale della Marina accusato di corruzione, bancari che spulciano i conti dei vip, mi scusi, ma non la vedo sorpreso o particolarmente spaventato.
«No, lo posso affermare senza dubbi: non vedo né complotti né burattinai. Nella mia esperienza di burattinai ne ho visti sempre molto pochi. A volte, magari, mi è capitato anche di immaginare, non dico di auspicare, che ci fosse qualche burattinaio dietro una trama. Molto spesso invece, dal mio punto di vista, c’è un deficit culturale complessivo: la sottovalutazione della centralità delle infrastrutture critiche, uno scarsissimo senso dell’interesse generale e dell’interesse nazionale nel quale poi sguazzano coloro che vogliono delinquere».
Dietro a questi furti di dati, affastellando indagini diverse però con degli aspetti in comune, non scorge le mani di servizi segreti stranieri?
«Non hanno certo la necessità di affidarsi a questi gruppi estemporanei. I servizi stranieri, più evoluti nel settore digitale, non hanno iniziato adesso a prendere di mira l’Italia».
Si riferisce a Cina e Russia?
«Possono essere un esempio calzante, ma nel mondo interconnesso non ci sono santuari inespugnabili. Chi è senza peccato, scagli il primo dossier. La sicurezza dei dati resta fondamentale per tutti».
Come dovrebbe reagire lo Stato, e dunque il governo in carica, di fronte a questa pericolosa vulnerabilità?
«Per una forma di onestà intellettuale in tal senso, premetto che i problemi dell’Italia non sono cominciati il 22 ottobre del 2022 col governo Meloni. I problemi vengono da lontano. Durante il governo Draghi, non un’era fa, rilevammo che il novanta per cento dei server pubblici era scarsamente affidabile. Dovrebbe passare il concetto che la sicurezza ha un costo e non un dividendo politico immediato. Qui si cercano risposte semplici a questioni enormi. Come quello che, correttamente, viene definito il “populismo giustizialista”. Per esempio l’inasprimento delle pene per replicare a questa vicenda di Milano».
Che conseguenze avrebbe?
«Nessuna, anzi forse una: farebbe aumentare le tariffe per i mercanti dei dossier».
Non bisogna inseguire le inchieste, cucire toppe di fretta.
«Esatto. Posto dinanzi all’alternativa “ma tu preferisci un sistema repressivo efficiente o un sistema di prevenzione efficiente”? Rispondo che non c'è partita. Perché qualsiasi sistema repressivo efficiente si colloca nel momento in cui il danno si è realizzato. E soprattutto l’attività repressiva riguarda non tutto quello che in qualche modo può essere scoperto, ma quello che viene scoperto. È un po’ lo stesso discorso fra sicurezza reale e sicurezza rilevata. Inutile mandare in galera un poliziotto infedele se al controllo ne sfuggono altri dieci».
La vostra soluzione onnicomprensiva, parliamo del governo Draghi, era l’Agenzia per la cybersicurezza.
«Non proprio una invenzione recente. Siamo arrivati nel 2021, vent’anni dopo la Germania, quindici dopo la Francia. E i ritardi si pagano. La missione principale dell’Agenzia era quella di vigilare sull’integrità delle infrastrutture, dei sistemi informatici, delle banche dati per intenderci, e poi muoversi in altri tre settori: Investigazione, Intelligence, Difesa. In questo momento assistiamo ai litigi sulle competenze. Ai dispetti».
Draghi evocava lo Stato per controllare.
«Non in maniera ossessiva, ci tengo a precisare, ma per capire dove intervenire in maniera reattiva».
Il governo Meloni, sempre per i sistemi informatici o di comunicazione, accoglie i privati, le aziende private, spesso straniere.
«Non si deve aver paura dei privati, si deve collaborare con giudizio, ma lo Stato deve fissare un perimetro sulle infrastrutture strategiche».
Questo è il governo, e non è la prima volta, che ha ceduto la rete telefonica nazionale di Tim a un fondo americano.
«Quando ebbi la fortuna di partecipare al tavolo per la gestione di Tim che fu istituito dal presidente Draghi, sottolineai come, nella mia competenza di autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, fosse un elemento fondamentale per la sicurezza del Paese riappropriarsi dell’infrastruttura delle telecomunicazioni. Come succede nei grandi Paesi e, limitandomi al nostro Continente, posso citare Gran Bretagna, Germania, Francia. Infatti per Tim si prevedeva un ruolo fondamentale di Cassa depositi e prestiti, poi il governo Meloni ha imboccato una direzione opposta».
Anche a voi Elon Musk o le sue aziende proposero di creare una rete di connessioni, una rete di riserva, di tipo satellitare?
«A mia memoria no, non ho ricordi né notizie».
Invece il governo Meloni ha spalancato l’Italia al miliardario americano.
«Avrà fatto le sue valutazioni. Molteplici».