Letteratura
Cuore, colpa e perdono
L’adolescenza, il difficile rapporto con il corpo. Il successo con “Acciaio”, la paura della fama effimera. E ora il nuovo romanzo con le amicizie al centro. La scrittrice: “Le ho sempre coltivate”
Quando ha esordito con “Acciaio” (Rizzoli, 2010) Silvia Avallone aveva venticinque anni e non poteva immaginare che nel giro di pochi mesi si sarebbe posizionata tra gli scrittori, le scrittrici che per anni aveva letto con grande fame. “Acciaio” si sarebbe classificato secondo al premio Strega, dietro “Canale Mussolini”, per soli quattro voti, avrebbe vinto il Campiello opera prima, sarebbe stato tradotto in trenta lingue, trasposto per il cinema. Avallone, venticinquenne, non lo immaginava, ma quel libro sarebbe stato il primo di una fortunata serie che arriva fino a oggi con “Cuore nero” (Rizzoli, pp. 368, € 20), storia di condanna e salvezza che indaga le crepe più buie dell’anima, riempiendole di compassione.
Fin da “Acciaio”, una protagonista dei suoi libri è l’amicizia.
«Le amicizie le ho sempre coltivate, perciò ne ho scritto tanto. Da bimba, a Biella, alle elementari avevo un mio gruppo di amichette a cui tenevo molto: la banda della siepe. Avevamo fatto un buco in una siepe dentro cui giocavamo, chiacchieravamo: ne ho dei ricordi stupendi. In generale ho dei bei ricordi di quel periodo. Un paradiso che si spezzò alle medie».
Cosa accadde?
«Ero felice d’iniziare quella nuova stagione: mi immaginavo adolescente e più libera. Fu una secchiata d’acqua gelida. L’età che abbiamo alle medie è infame: non sei ancora un adolescente, ma non sei più un bimbo. I rapporti con i pari si fanno complicati e capire come comportarsi, cosa si vuole oppure solo qualcosa in più su noi stessi lo è anche di più. Ecco, non successe niente di eccezionale: semplicemente, iniziammo a crescere».
Ha detto che la pace delle elementari si spezzò alle medie, però pare che tutto andasse bene.
«Fu allora che ruppi con la mia migliore amica. Non capitò alcunché, ma la separazione si consumò ugualmente: la magia dell’infanzia era finita, non ci capivamo più. La ferita la patii, ma fu un colpo di quelli utili a crescere».
Se non accadde niente perché vi separaste?
«I nostri corpi avevano iniziato a cambiare, ma mentre il suo rapidamente si faceva bello e desiderato, il mio cambiava in modo ribelle, disarmonico, o forse ero io che non riuscivo a disciplinarlo. E questo ci separò. Fu in quegli anni che cominciai un lavoro di affrancamento importante: smarcarmi dall’idea che il mio corpo passasse traverso lo sguardo altrui».
Quando iniziò?
«Coincise con le prime ribellioni - d’altra parte, quella era una ribellione. L’idea che dovessi essere sempre curata e che dovessi vestirmi in modo carino, piacente, non la sopportavo. Quindi mi buttai sul punk. Alla fine delle medie presi a macchiare i jeans di candeggina, stracciare pantaloni e camicie, indossare borchie e catene, anfibi ai piedi, poi, alle superiori, arrivarono anche il tatuaggio e i piercing».
Ribellione rabbiosa o esplorazione?
«Entrambe. Da una parte soffrivo il perbenismo e l’ipocrisia per cui tutte le ragazze dovessero vestire allo stesso modo, seguendo le mode. Dall’altra ero curiosa di sperimentare nuove versioni di me stessa».
Come andò?
«A Biella il sabato pomeriggio i ragazzini facevano avanti e indietro per via Italia, vasche di adolescenti che passeggiavano, si incontravano per chiacchierare. Ed erano tutti uguali: tutti con gli stessi pantaloni, maglie e scarpe. E poi, sulle scale della chiesa, in mezzo al corso, c’era un gruppetto di diversi: vestiti di nero, borchie e piercing, i capelli a cresta, con sigarette ed espressioni truci. Mi attrassero subito».
I suoi come la presero?
«Non bene, e oggi li ringrazio: gestirono la situazione in modo lungimirante. Mi lasciavano sperimentare, ma mi davano anche dei limiti, e mi ripetevano le cose che contano - studiare, usare la propria testa. Ingaggiavo conflitti aspri con entrambi. Cercavo di allontanarmi da loro e dall’infanzia, e quello era il mio modo di farlo».
Durata di questo periodo?
«Qualche anno, il ginnasio».
Poi si è trasferita a Piombino.
«Le cose cambiarono. Allora ero un’adolescente, e potevo uscire con gli amici. I miei mi regalarono il motorino, e che bellezza! Con il vento in faccia, andavo dappertutto. Fu la prima arma di emancipazione, l’inizio della libertà».
In “Un’amicizia” c’è un motorino con una certa importanza.
«Amavo il mio motorino. Lo usavo per andare dove non potevo. Giravo attorno all’acciaieria o per la città, andavo al mare. E, insomma, per una sedicenne andare al mare d’inverno con il proprio fidanzato sul proprio motorino è il massimo».
Poi Bologna.
«Ci andai per l’università e per me quel trasferimento segna l’inizio della mia vita: quella che io avevo scelto. Ero felice e impaziente. Pensi, cominciai a infilare vestiti e libri negli scatoloni sei mesi prima della partenza».
Andò bene fin da subito?
«Sì, direi di sì. Anche se il primo pomeriggio, arrivata in studentato, nella camera che avrei diviso con una ragazza pugliese che non era ancora lì, mi sedetti sul letto e scoppiai a piangere. Non per la tristezza, era paura: per la prima volta ero sola, in una grande città, attorniata da sconosciuti».
Poi?
«Poi cominciarono a squillare i telefoni interni, e iniziò la festa».
Ci spiega?
«Ero al Carducci, un mitico studentato bolognese in cui avevano alloggio circa trecento studenti. Tutte matricole e da ogni parte d’Italia: una cosa stupenda! Nessuno conosceva nessuno, ma c’era un’aria di grande complicità per il futuro che si apriva, c’era un bel fermento, e quel primo pomeriggio i telefoni cominciarono a squillare per iniziare a organizzare cene, uscite in esplorazione della città. Ragazzi dalla Sicilia e dal Trentino, dalla Sardegna e dal Lazio. Cucine e accenti diversi, modi di fare e di essere agli opposti. La scoperta dell’Italia tutta insieme nello stesso grande palazzone. Appunto: una grande festa».
Furono dei begli anni.
«Meravigliosi! Ma dopo il primo anno cambiai studentato. Le cose non andarono ugualmente bene. Sette ragazze in un appartamento con due bagni: fu un’enorme, lunga scuola di diplomazia. Fortuna volle che dopo un paio d’anni cambiai di nuovo: andai a stare al Morgagni, in centrocittà. Periodo bello come il primo. È lì che scrissi “Acciaio”».
Come andò?
«C’impiegai un anno, e mi presi una pausa dagli esami. Fu la mia prima, vera azione rischiosa. Avevo una borsa di studio e se quel romanzo non fosse stato pubblicato, alla fine, sarei rimasta con niente in mano e sarei dovuta tornare dai miei. Presi il coraggio a due mani, scrissi, andò bene».
Lei è passata da uno studentato ad “Acciaio”. I primi giorni?
«Il giorno dell’uscita andai alla trasmissione di Serena Dandini, e quello, di per sé, fu già strano: la guardavo in tivù, in studentato, e dal niente ero lì, ospite. Poi iniziai a girare il Paese: aerei, treni, auto. L’Italia che prima erano gli accenti e i volti dei miei compagni di studentato diventò un luogo vasto, spalancato, eccitante».
Se lo godette?
«In parte. Ero felice e mi divertivo, ma una vocina nella mia testa continuava a dirmi: tutto questo finirà, tutto questo finirà e non ti resterà niente. Ero in ansia. Sapevo che la fama era aleatoria e non volevo, non potevo, finire con lei. Volevo continuare a scrivere».
“Acciaio” si è classificato secondo al premio Strega, non vincendo solo per quattro voti. Lei all’epoca aveva appena ventisei anni. Avrebbe voluto vincere?
«L’esperienza dello Strega è stata stupenda, ed è stata tanto bella perché, tra le altre cose, è capitata per caso. Io i premi Strega li leggevo, e mica sapevo altro. In quel mondo ero appena arrivata, eppure ero tra scrittori, scrittrici fantastici che avevo solo conosciuto con i loro libri. Insomma, mi reputavo già fortunata a trovarmi lì».
I suoi compagni di viaggio?
«Eccezionali. Spiritosi, leggeri, dolci. E questo fece la differenza. L’aria che si respirava era bella, c’era una competizione molto sana».
Vinse “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi.
«Al giro di votazioni utile a designare la cinquina “Acciaio” era primo. Ero felice e confusa. Pennacchi mi venne incontro e mi disse oh, Avallone, non farmi scherzi, eh!. Lo fece con un sorriso, con una dolcezza che mi fecero sentire bene, accolta».
Finito tutto?
«Feci due cose: finii gli esami mancanti per la laurea e mi sposai».
Conobbe suo marito in quel periodo?
«La sera dopo l’uscita di “Acciaio”, tornata a Bologna da Roma, dov’ero stata per il programma di Dandini, corsi in libreria: il romanzo non lo avevo ancora visto, e mi piaceva l’idea di trovarlo su uno scaffale. Così andai dal libraio e gli chiesi dove fosse “Acciaio”: nove mesi dopo ci sposammo».
Oggi avete due figlie. La maternità?
«Si dice che rinasci con i tuoi figli, e in parte è vero: è uno spartiacque e non può non cambiare la tua vita. Il passaggio dall’esser figlia all’esser madre è stato sbaragliante, così come l’amore che ho sentito subito, nel vedere le mie figlie, è stato dirompente. Oggi, con un matrimonio felice, due bimbe e i miei libri mi sento finalmente bene».
La ragione di questa soddisfazione?
«L’insieme di scrittura e amore. “Cuore nero” mi ha concesso di ragionare sulla colpa e sul perdono - cosa che mi ha molto aiutata. Aver dato una sorellina alla mia primogenita, poi, è stata una grande gioia».
Lei ha raccontato una storia felice, oggi. Le chiediamo, allora: crede in Dio?
«No, ma mi piacerebbe. Mi piacerebbe credere che dopo raggiungeremo un luogo in cui tutte le ferite vengono riparate».