Per tre mesi, mezza America ha pensato che fosse davvero arrivato il momento di far calare il sole su 235 anni di patriarcato alla Casa Bianca. Non è stato così. Nella notte del cinque novembre, il sogno che ha guidato la breve, intensa campagna elettorale di Kamala Harris si è dissolto sul palco vuoto allestito nel campus della sua Howard University. Ha perso, come Hillary Clinton otto anni fa. La più grande democrazia occidentale non è ancora pronta a una «Madam President».
Nikki Giovanni, leggenda del femminismo nero, ci aveva sperato fino all’ultimo momento. A ottantuno anni, nonostante le magagne legate alle dolenti condizioni di salute, si era dedicata anima e corpo a costruire la strada di Harris verso Pennsylvania Avenue. «La storia dimostra che gli Stati Uniti, a differenza di tante altre nazioni, sono sempre molto lenti quando si parla di leadership femminile», dice rammaricata. Forse l’America finge di non ricordare che in realtà le chiavi della Casa Bianca le donne le hanno già avute in mano. «Le ebbe, ad esempio, Eleanor Roosevelt, perché il marito presidente Franklin era spesso malato. E naturalmente Edith Wilson, visto che il consorte Woodrowaveva avuto un terribile ictus e riusciva a malapena a parlare». La poetessa auspicava di poter essere testimone del balzo in avanti. «Siamo state per anni dietro i grandi protagonisti del movimento per i diritti civili. Con la vicepresidente pensavo fosse arrivato il momento per le donne di dire: “Siamo pronte a guidare”».
Con lei ci speravano anche le migliaia di studentesse che hanno affollato “The Yard” dello storico college nero della capitale, per seguire lo spoglio e festeggiare l’incoronazione della prima presidente donna. Questa spianata ha accolto celebrità e leggende, da Martin Luther King a Barack Obama, passando per Nelson Mandela. Affacciato sul cortile, il Frederick Douglass Memorial Hall, intitolato al più importante abolizionista e intellettuale nero del XIX secolo, storico sostenitore del suffragio femminile e dei diritti delle donne.
È qui che Harris si era laureata nel 1986, trascorrendovi gli anni più importanti della sua formazione civile, con le marce antiapartheid, con le manifestazioni per i diritti. “The Mecca”, come chiamano l’ateneo, fu fondato nel 1867 con la visione di rendere accessibile l’istruzione universitaria agli afroamericani appena usciti dall’incubo della schiavitù.
Brittany è al primo anno di infermieristica. La incontriamo sul prato del campus dove aspetta con i suoi amici che la loro eroina prenda la parola. Ha votato quest’anno per la prima volta: «È emozionante avere il privilegio di percorrere gli stessi corridoi attraversati dalla vicepresidente quando era una studentessa come me. Non avrà ancora rotto il soffitto di cristallo che separa le donne dalla Casa Bianca, ma i suoi successi restano la mia ispirazione», afferma.
È ad Howard che Kamala – nata nel 1964 in California da mamma biologa indiana e papà economista giamaicano – aveva imparato a non aver paura di essere «l’unica persona nella stanza che ti somiglia». La sua carriera ha onorato la lezione: prima donna e prima afroamericana procuratrice distrettuale di San Francisco e poi prima procuratrice generale della California nel 2011; prima senatrice nera della California nel 2016; stesso primato nel 2020 come vicepresidente, con una parentesi sfortunata nel 2019 da candidata alle primarie dem.
Non particolarmente brillante era stata per la verità neanche l’esperienza alla Casa Bianca. Meno di un anno fa i sondaggi la descrivevano come la vice meno amata della storia. Gli stessi leader di partito nei corridoi della West Wing sussurravano dubbi più che parole di stima. Proprio per questo, ritirandosi dalla corsa, Joe Biden blindò la candidatura della sua luogotenente. Quel 21 luglio, quando alzò la cornetta per rispondere al presidente, Kamala era a casa. Domenica, nessun impegno pubblico. Aveva addosso la felpa portafortuna della sua Howard University.
L’America ancora non lo sapeva, ma lei si era preparata da tempo.
Non ha sprecato uno solo dei 107 giorni di campagna elettorale. Da record i finanziamenti dei sostenitori, così come senza precedenti la mobilitazione dei volontari che solo negli ultimi giorni avevano bussato a milioni di porte, soprattutto negli Stati in bilico. Un solo dibattito, ben assestato, con Donald Trump. E poi interviste mirate nella parte finale del rush. Show più che comizi, gli ultimi, con la partecipazione del gotha di Hollywood e della musica americana: da Julia Roberts a Beyoncé.
Ma un fiume di soldi ed endorsement eccellenti non sono bastati. E neppure la tanto esibita “gioia” della guerriera con il sorriso perfetto. La maggioranza degli americani non si è riconosciuta nell’idea di nazione diversa, inclusiva, progressista, proposta dai democratici. Debole la ricetta economica di Harris, troppo contigua alla Bidenomics e percepita meno affidabile di quella di Trump. Discorso simile per le politiche legate a sicurezza e immigrazione. Una parte del Paese si è sentita spaventata dal baluardo di paladina delle donne e dei loro diritti riproduttivi, della comunità Lgbt ed in particolare di quella transgender. I musulmani americani in Michigan non hanno creduto alle parole di costernazione per il popolo palestinese a Gaza, né alla sua capacità di spegnere il fuoco di guerra in Medio Oriente. Le sue giravolte sul fracking hanno indisposto i moderati in Pennsylvania. Ha raffreddato gli animi di una fetta decisiva di uomini afroamericani e latini negli Stati in bilico che all’incognita di una donna nello Studio Ovale hanno preferito Trump. Lo «shy vote» delle repubblicane preoccupate per l’accesso all’aborto, non si è palesato come sperato.
Dall’altra parte, l’avversario ha avuto gioco facile non perdendo una singola occasione per denigrarla, per insultarla, per sminuirla. Non ha mai usato il cognome, ma l’ha sempre chiamata solo per nome, storpiandone la pronuncia.
«Ha vinto l’America razzista, quella più arrabbiata e sessista – dice tirando su con il naso Joila, originaria della Virginia – il nostro è un Paese fermo al passato, che ha avuto paura di voltare pagina». La giovane, vent’anni appena compiuti, sta lasciando il campus assieme a un gruppetto di supporter, sconsolati come lei dopo l’annuncio che Harris non avrebbe parlato al suo popolo come promesso.
Per Joila e i suoi amici la preoccupazione più grande è che il partito democratico, scottato da questa sconfitta, per recuperare il consenso dei moderati viri verso posizioni più conservatrici. «Ci spaventa l’idea che i vertici possano spegnere i riflettori sulle nostre rivendicazioni legate all’identità gender. Oppure che affievoliscano gli sforzi e le battaglie della cultura woke; ma anche che battano un pugno più duro sulle politiche legate all’immigrazione». Quanto questi timori siano fondati, lo capiremo fra qualche settimana, quando i democratici saranno pronti ad analizzare questa sconfitta e a individuarne i responsabili.