Il dossier
Caso UniCredit, i giganti del potere mettono all'angolo il governo
L’offerta di Unicredit scompagina i piani dell'esecutivo di Giorgia Meloni sul Monte dei Paschi di Siena. La sbandierata italianità deve sempre fare un passo indietro davanti alle grandi potenze del mercato. Come accade anche nei casi di Generali, Autostrade, Fibercop
Andrea Orcel ha messo il piede in mezzo alla porta», la prorompente scalata di UniCredit a Banco Bpm, che ha mandato in solluchero o in analisi il sistema bancario e politico italiano, dipende dai gusti, può essere ben riassunta da questo commento di un dirigente romano che personifica il potere dalla postura alla statura. «Andrea Orcel ha messo il piede in mezzo alla porta», con fare impetuoso, noncurante dei giudizi del governo, vuol dire che l’amministratore delegato di UniCredit è riuscito a vincere prima ancora di capire come andrà a finire l’offerta pubblica di sottoscrizione (Ops) per papparsi Banco Bpm del più prudente collega Giuseppe Castagna.
Breve pausa. Il governo di Giorgia Meloni, nonostante le liti grevi tipo quella su Matteo Salvini «paraculetto», liti grevi a uso e consumo dei retroscenisti, è il governo più solido d’Europa per due motivi che definire banali è assai educato: non ci sono alternative nel campo ben delimitato della maggioranza (al singolare), non ci sono alternative nel campo minato delle opposizioni (al plurale). Ciò non significa che il governo forte è davvero forte con i forti. E il caso UniCredit e altri casi qui in esame lo spiegano bene. Almeno lo si spera. Pausa terminata.
«Andrea Orcel ha messo il piede in mezzo alla porta» vuol dire che la porta, nel frattempo né aperta né chiusa, poniamo socchiusa, fa passare spifferi che rovesciano i castelli del governo. Giovedì 28 novembre s’è saputo che la banca britannica Barclays ha ridotto la quota in banca Mps sotto il 5 per cento. La differenza è di pochi decimali, ma è un indizio chiaro: è tornata la calma attorno all’antico Monte dei Paschi di Siena, rinato con fatica dopo lo scempio e i medicamenti con denaro pubblico. Appena due settimane fa c’erano ambiziosi programmi, e bottiglie già in fresco, proprio per il futuro di Mps. Il 15 novembre il ministero dell’Economia aveva collocato il 15 per cento del Monte a Banco Bpm (5%), Anima (salita a 3,99%), gruppo Caltagirone (3,6%), Delfin famiglia Del Vecchio (3,5%). Per gli esperti del settore era la lucente alba di un terzo polo, un’insidia proprio per UniCredit, seconda per valore assoluto alle spalle di Intesa Sanpaolo. Peraltro il 6 novembre, lo stesso Banco Bpm si era spinto con una offerta pubblica di acquisto (Opa) di 1,6 miliardi per completare la conquista di Anima dopo aver accumulato già il 22%. Anima è un gestore di risparmio con un patrimonio stimato di 192 miliardi di euro. Questo incastro avrebbe trasformato Banco Bpm, l’ex Banca Popolare di Milano, un istituto localizzato soprattutto al Nord, in un campione nazionale capace, se non proprio di sfidare il duopolio Intesa e UniCredit, quantomeno di avere una stazza sufficiente per competere con chiunque e di farlo con la benedizione del governo Meloni e in particolare dei leghisti. Il 25 novembre Orcel ha disinnescato questo processo con una proposta da circa 10 miliardi per Banco Bpm, puntualmente rifiutata, ma un «no» nel mercato borsistico non è mai per sempre. «Andrea Orcel ha messo il piede in mezzo alla porta» e ha già ottenuto due effetti: bloccare un concorrente e avvicinarsi alla preda che lo interessa davvero, cioè Anima col suo patrimonio. Due effetti, e una conseguenza: si riaprono le ipotesi su Mps senza particolare frenesia, il Tesoro deve dismettere ancora il suo 11,7%, un accordo UniCredit-Banco Bpm dovrebbe liberare centinaia di filiali di troppo. Col tempo, e con i rialzi, Orcel potrebbe prendersi Banco Bpm (e Anima) e accettare un ordinato ritiro dalla Germania dopo l’assalto a Commerzbank.
La fusione per incorporazione di Banco Bpm in UniCredit ricorda quella di Ubi Banca in Intesa Sanpaolo con una sostanziale differenza: il governo è contrario. Che Orcel fosse immune dai legittimi auspici del governo Meloni, che pensa ai suoi azionisti cittadini/elettori di riferimento, si era compreso già qualche mese fa quando il medesimo Orcel ha favorito la conferma di Pier Carlo Padoan a presidente, non proprio un messaggio distensivo rinominare l’ex ministro dell’Economia di un governo di centrosinistra se il governo di centrodestra non lo gradisce. A proposito di Anima e di gestori di risparmio, in cottura c’è la creazione di una piattaforma fra l’italiana Generali e la francese Natixis da 2.000 miliardi di euro. Il dilemma è uno: chi comanda? Le prime (errate) indiscrezioni davano in vantaggio la parte francese. Le ultime (corrette) danno una coabitazione 50 e 50 con la conduzione di Generali. Il governo Meloni potrebbe tollerare unicamente una evidente conduzione di Generali, altrimenti potrebbe bloccare l’operazione utilizzando il «golden power», la procedura speciale quando cambiano gli assetti in settori strategici per il Paese. Questo accade a una manciata di mesi dall’ennesima puntata per la designazione dei vertici di Generali che contrappone da anni Mediobanca e Caltagirone/Del Vecchio. L’amministratore delegato Philippe Donnet si prepara al quarto mandato con l’affare Natixis in corso, mentre il governo Meloni, dalle parti di Palazzo Chigi soprattutto, è molto sensibile a Caltagirone. E pure per Bpm, come per Generali, il governo si appella sempre alla «italianità». Il mercato però se ne infischia, e non se ne fa un discorso di merito.
La nuova Autostrade per l’Italia, costruita dopo l’epoca Benetton sulle macerie del Ponte Morandi con le sue 43 vittime e controllata da Holding Reti Autostradali per l’88 per cento, doveva essere l’emblema della «italianità». Invece lo Stato azionista di maggioranza, tramite Cassa Depositi e Prestiti che ha il 51 per cento di Holding, si ritrova a battibeccare con gli azionisti di minoranza, i fondi Blackstone e Macquarie. Per un paio di anni i fondi, che devono far fruttare il loro investimento, hanno drenato l’intero dividendo, poi si è raggiunto un compromesso per scontarlo e rateizzarlo lasciando risorse dentro la società, allora lo scontro si è spostato sul piano economico finanziario (Pef) che regola il rapporto fra il concessionario Autostrade per l’Italia e il ministero dei Trasporti che affida la gestione di 3.000 km di autostrade. In sostanza Autostrade per l’Italia, per confermare i 35,9 miliardi di euro in cantieri, chiede di prolungare la concessione dal 2038 al 2044, altrimenti sarà obbligata ad alzare le tariffe dei pedaggi oltre l’inflazione. Il ministero di Matteo Salvini prima ha sbraitato, poi si è messo a valutare il Pef per cercare un equilibrio perché il documento va firmato entro dicembre: «Il Pef è in fase istruttoria al fine di assicurare il potenziamento dei servizi escludendo oneri eccessivi per l’utenza», fa sapere il ministero. In parallelo, con un anno di ritardo, prende forma la società Autostrada di Stato, voluta da Salvini (la voleva anche Mario Draghi) per lasciare in mano pubblica le tratte non vincolate da concessioni. Per partire ci sarà uno scorporo da Anas che dovrà cedere, dietro il pagamento di 343 milioni di euro, 200 km (una miseria) di autostrade a pedaggio. Lo Stato paga lo Stato. Meraviglioso.
Ancora più confusa la situazione per le connessioni veloci. Dopo aver plasmato Fibercop per abbattere il debito di Tim e tentare di avere un operatore di rete unica, il governo scalpita per coinvolgere Starlink di Elon Musk. A L’Espresso risulta che a breve sarà indetta una gara per assegnare il cablaggio di aree difficili da raggiungere. È un progetto pilota per sperimentare un sistema misto fibra ottica a terra e satelliti a bassa quota. Ovvio che la gara interessi a Fibercop, azienda che ha una variegata composizione: azionista di riferimento il fondo americano Kkr, a seguire un fondo pensionistico canadese, un fondo sovrano emiratino, il ministero dell’Economia, il fondo infrastrutturale italiano F2ì. Ci si domanda, con la dovuta preoccupazione, che ne sarà di Open Fiber? Anche Open Fiber ha la sua componente di «italianità» visto che il 60 per cento è di Cassa Depositi e Prestiti. Che sia Orcel o Musk o il fondo Kkr a mettere il piede in mezzo alla porta, il guaio è che di questa porta il governo non ha le chiavi.