Lo scrittore torna in libreria con il suo ultimo lavoro, Day. «Ho avuto due famiglie, una biologica e una queer, volevo mescolarle assieme»

È il 2019, Brooklyn. Dan e Isabel hanno due bei figli, vivono un appartamento di tutto rispetto e conducono esistenze serene, ma il seme dell’insoddisfazione è stato piantato tempo fa: il matrimonio imbarca acqua. Con loro vive Robbie, fratello di Isabel, attorno a cui gravitano come attratti da una forza misteriosa. È una famiglia complessa quella al centro del romanzo “Day”, il nuovo libro di Michael Cunningham (La nave di Teseo). E la guardiamo cambiare senza però modificarsi per davvero ritrovandola l’anno dopo e quello dopo: nel 2020 della pandemia, nel 2021 del post-Covid.

 

Cunningham, la famiglia che racconta in “Day” è insolita. Perché?
«Di famiglie ne ho avute due: quella biologica, da bambino, e quella queer, da giovane adulto. In questo romanzo volevo mescolarle assieme».

 

La sua famiglia queer?
«Negli anni dell’epidemia di Aids in America quando un uomo contraeva l’Hiv e chiamava i genitori per dar loro la notizia, di solito cominciava così: “Ho da dirvi due cose: sono gay, ho l’Hiv”. Il conseguente rifiuto di tanti di accettare l’omosessualità dei figli ci ha portati e crear nuove forme di famiglia, dal nulla il tuo nucleo era formato da una drag queen, due motocicliste lesbiche e un barista gay».

 

Erano belle famiglie?
«Piene di amore. Imperfette, litigavamo e discutevamo, ma eravamo sempre lì gli uni per gli altri: andavamo in farmacia per comprar le medicine necessarie, in ospedale quando la situazione peggiorava, organizzavamo i funerali».

 

La sua famiglia biologica?
«Tradizionale: madre, padre e sorella più piccola, in una villetta di periferia».

 

Lei e sua sorella avete un rapporto simile a quello dei personaggi?
«Amo mia sorella, ma abbiamo un legame sano. Robbie e Isabel sono intrappolati nella loro relazione - un rapporto malato».

 

Isabel ha due figli Nathan e Violet, cui Robbie è legato: è, direbbero oggi sui social, lo zio gay figo. Lei è stato lo zio gay figo?
«Non credo di essere figo, ma ho un bel rapporto con molti dei figli dei miei amici».

 

A proposito dell’omosessualità: nei suoi romanzi è sempre presente.
«In alcuni miei personaggi è una caratteristica, ma una delle tante. Racconto il loro orientamento sessuale quand’è ormai una nota».

 

Torniamo indietro, allora: il suo coming out?
«Al college, ho aspettato di avere un fidanzato da presentare ai miei».

 

Perché?
«Credevo l’avrebbero presa meglio. Per le generazioni precedenti alla mia era difficile immaginare un futuro tranquillo per un uomo gay. Dicendo “papà, mamma: sono gay” era come se stessi annunciando d’imbarcarmi per una vita solitaria, con uno Yorkshire Terrier in casa, a fare sesso nelle stazioni degli autobus con sconosciuti che poi mi avrebbero picchiato».

 

È andata bene?
«No, erano molto dispiaciuti».

 

Rimanendo a quel periodo, tornando all’Aids. Si sente un sopravvissuto?
«Sì. In tutta franchezza, la sorpresa di esser negativo, all’epoca, è stata grande».

 

Di nuovo su Robbie e Isabel. Nella prima parte del romanzo fanno lavori che odiano. A proposito d’impieghi odiati: so che ha fatto il barista.
«Sì ma mi piaceva! Mi ero appena laureato, volevo scrivere ma al tempo stesso avevo l’affitto da pagare. Senza pensarci, ho preso un posto da cameriere».

 

Com’è andata?
«Lavoravo in un gay bar, il Boom boom Room, era famoso ed era sempre pieno. Motivi tropicali, palme finte, corone di fiori ovunque, e noi baristi dovevamo girare con delle gonne di foglie. I colleghi erano muscolosi e belli».

 

Dunque lei era muscoloso e bello?
«No, tant’è che all’inizio ero sorpreso di essere stato assunto. Poi ho capito che quella dei proprietari era una strategia: assumevano due camerieri simpatici che potessero risultare avvicinabili alla clientela: ero uno di loro. Compreso questo, l’ho usato a mio vantaggio: i clienti si imbarazzavano e non riuscivano ad avvicinare i camerieri più belli, formazioni geologiche messe lì per essere ammirate, allora subentravo io. In un anno ho fatto una fortuna con le mance: potevo scrivere».

 

E ha scritto, con “Le ore” è arrivato il Pulitzer. So però che a quel punto è caduto in depressione. “Da quel momento potevo solo scendere il fianco della collina”, ha detto in un’intervista.
«È durata un anno. Raggiunto l’apice pensi che puoi solo tornare in basso».

 

Poi?
«Poi mi sono detto che se il periodo in cui non venivo letto e recensito non era stato capace di farmi smettere di scrivere, non poteva di certo capitare adesso che avevo raggiunto un traguardo tanto grande».

 

Cosa ha fatto, scoperto di aver vinto il Pulitzer?
«Ho chiamato mio marito, poi mio padre. In quel frangente ho avuto la sensazione di aver vinto la battaglia con lui che andava avanti da anni».

 

C’era una sfida?
«Era un buon padre, ma era una persona competitiva. Siamo andati d’accordo per anni perché lui era quello che aveva avuto successo, che guadagnava bene, io ero il ragazzo che serviva ai tavoli, in gonnella. Quando ho vinto il Pulitzer le cose sono cambiate».

 

In “Day” accade tutto in un giorno solo, pure se in anni diversi: torna “Mrs. Dalloway”. Virginia Woolf per lei è fondamentale, e lo sappiamo dai tempi di “Le ore”. Le chiedo d’immaginare che - tra cent’anni, per carità - lei muoia e finisca nel Paradiso degli scrittori: incontra Woolf. Cosa le dice?
«Che bella domanda! Sa, Woolf era una critica brillante ma severa, e non sono capace di pensare che leggendo “Le ore” avrebbe qualcosa di bello da dirmi. Non le parlerei del romanzo, ma del film: credo lei sarebbe più interessata al fatto che sia stata interpretata da Nicole Kidman. Io e Woolf parleremmo di Nicole per l’eternità».