Intervista
Claire Foy: «La perfezione non è interessante. La vulnerabilità lo è molto di più»
Da regina nella serie cult "The Crown" a hacker di "Millennium". E ora "Estranei", ispirato al romanzo di Taichi Yamada. Dialogo a tutto campo con l'attrice. «La mia forza? Essere fragile»
Che indossi la corona di Elisabetta II come nella serie “The Crown”, o sfrecci in moto a tutta velocità come in “Millennium”, Claire Foy è sempre molto attenta a scegliere i suoi iconici personaggi, tanto da averne realizzata in una manciata di anni una galleria già memorabile. Si aggiunge adesso la tenera madre del protagonista di “Estranei”, dramma intimista sospeso tra passato e presente, al cinema dal 29 febbraio. Talentuosa, preparata e convincente, l’attrice britannica svela a L’Espresso l’unica vera regola che segue per risultare puntualmente credibile: «Mai inseguire la perfezione: è troppo noiosa».
Eppure, a guardare le sue performance, dà l’idea di essere una perfezionista al limite del maniacale.
«I miei ruoli li preparo nel dettaglio, è vero, ma non sono mai stata interessata a rappresentare la perfezione sullo schermo. Così come nella vita non ci ho mai tenuto a mostrarmi incredibilmente forte».
Perché?
«La vulnerabilità è di gran lunga più interessante. Da mostrare, come da scoprire. Quando conosco qualcuno faccio attenzione alle modalità con cui difende, oppure svela, le proprie debolezze. La vulnerabilità è un rivelatore della persona che ci sta di fronte, articolare i propri sentimenti è una capacità che manca a molti. Da attrice ci tengo a raccontarla».
Spinta da quale intenzione?
«Dovremmo sempre chiederci tutti quale contributo vogliamo dare al mondo. Specie noi attori, e voi giornalisti, non dovremmo mai smettere di domandarci che cosa stiamo dicendo alla gente».
Cosa vuole dire al suo pubblico con questo nuovo personaggio?
«Che i “Macho man”, per dirlo con la canzone dei Village People, hanno stancato. Che non hanno nulla di affascinante, ammesso l’abbiano mai avuto. Che sono una versione riduttiva e limitante di un maschile che merita di essere raccontato in tutti i colori e le sfumature che può offrire».
Nel film interpreta la madre di uno sceneggiatore in crisi, che soffre per il lutto dei genitori subìto da ragazzo e trova un modo per incontrarli di nuovo.
«È un ruolo che mi ha toccato il cuore. I genitori hanno sempre tante aspettative sui figli, poter rincontrare da adulto un figlio che la sorte ti ha costretto ad abbandonare da adolescente è uno spunto narrativo che mi appassionava già solo come spettatrice. C’è una battuta memorabile: “I figli non ci appartengono”».
Da madre concorda?
«Lo trovo fondamentale. Alcuni genitori hanno aspettative altissime sui figli, pretendono che siano l’incarnazione dei propri desideri. Anche la madre che interpreto deve imparare che un figlio non c’entra con le proprie proiezioni, dev’essere lasciato libero di essere e diventare chiunque voglia».
In questo caso, nel film suo figlio è uno sceneggiatore omosessuale.
«Sono nata nel 1984, ma Andrew Haigh, che ha scritto e diretto il film, era adolescente durante l’epidemia dell’Aids e mi ha raccontato quanto fosse spaventoso essere gay in quegli anni difficili, e pericoloso sotto tanti punti di vista, anche a causa di orribili pregiudizi. I genitori di allora non avevano l’opportunità che abbiamo oggi di essere mentalmente aperti, ho sentito grande responsabilità nel mostrare una madre che ama profondamente suo figlio ma non riesce a vederlo e capirlo veramente. Le scene del loro confronto sono profonde e toccanti, mostrano quanta strada abbiamo fatto in termini di progresso anche mentale. Nel romanzo da cui il film è tratto (“Estranei” di Taichi Yamada, Casa editrice Nord, ndr) il protagonista era eterosessuale, una delle tante differenze del film rispetto al libro».
Lo ha letto?
«L’avevo comprato, ma il regista mi ha bloccata, dicendomi di non leggerlo perché l’aveva adattato in un modo estremamente personale. Mi sono ripromessa di recuperarlo».
La storia tratta temi emotivamente forti: l’elaborazione del lutto, il dolore, i conti aperti con i propri genitori.
«Ho accettato di interpretarlo perché trovo importante raccontare quanto coraggio ci voglia ad affrontare se stessi, i propri fantasmi, la perdita, l’abbandono, le incomprensioni e i bambini che siamo stati».
In una parola, la vulnerabilità. Lei quando si sente più vulnerabile?
«Ogni volta che metto piede su un set».
Non ci credo.
«Per sentirmi tutelata devo avere tutto sotto controllo, ma il set è il luogo dell’imprevedibilità e questo spariglia le carte emotive. Per non parlare di cosa significhi oggi esporsi al giudizio della gente, agli haters e alle critiche, con la costante possibilità di fallire miseramente davanti agli occhi di tutti. A volte è davvero estenuante. Diventa gratificante quando mi sento parte di un progetto importante da un punto di vista umano, oltre che professionale. Piangevo mentre giravamo certe scene di “Estranei”: non avrei dovuto».
Siamo fatti di emozioni.
«Il pubblico risponde solo all’autenticità, l’ho imparato i primi anni in cui facevo teatro. Non puoi spingere un tasto e piangere, se fingi se ne accorgono. Da spettatrice ho sempre amato documentari e tv-verità, ma anche reality – non giudicatemi – perché amo osservare le reazioni delle persone “vere” che, a differenza degli attori, non sono formate per essere guardate. Mi interessa più di tutto il non detto, i segreti e le paure inconfessabili, tutto quello che ognuno di noi cova dentro e tenta di non far vedere per arrivare a fine giornata».