Ci sono segnali d'inversione di tendenza nella crescita, anche per l'invecchiamento della popolazione. Ma non c'è nessuna frenata. E il monopolio nella produzione di strumenti strategici per il futuro resta

Arrivano i cinesi e mangiano felici / le quaglie, le pernici, che avevi preso tu. / Arrivano i cinesi, succede un quarantotto, / si piazzano in salotto e non se ne vanno più». Era il 1969 quando Lauzi cantava questa canzone. La Cina era quella di Mao Tse-tung e già incuteva timore, con quel libretto rosso, la rivoluzione culturale e i suoi 800 milioni di persone, che ne facevano il Paese di gran lunga più grande al mondo. La Cina che abbiamo conosciuto negli ultimi due-tre decenni è molto cambiata, ma spaventa ancora. È diventata un gigante economico e, fra l’altro, detiene quasi il monopolio nella produzione di prodotti strategici per il futuro come le cellule fotovoltaiche e le batterie elettriche.

Forse qualcuno avrà quindi tirato un sospiro di sollievo di fronte al tendenziale rallentamento dell’economia cinese negli ultimi anni. I giorni gloriosi di una crescita annuale del Pil reale a due cifre (il quinquennio dal 2003 al 2007) sono finiti. Il tasso di crescita si è ridotto gradualmente ed è previsto quest’anno al 4,6%. È ancora un tasso di crescita elevato per gli standard occidentali (il Fondo monetario prevede poco più del 2% per gli Stati Uniti), ma il declino tendenziale è così regolare da lasciar aspettare una sua continuazione nei prossimi anni. Sarebbe un declino strutturale forse guidato dal precoce invecchiamento della popolazione: la Cina, si dice, sta diventando vecchia prima di essere diventata ricca. A riprova dei problemi cinesi si citano la crisi del settore immobiliare (vedi caso Evergrande) e l’alto debito pubblico e privato. L’Occidente può dormire sonni più tranquilli.

Non ne sarei così certo. Non nego che la Cina stia attraversando problemi seri, ma le conseguenze di tali problemi non sono ancora evidenti. In termini assoluti, da circa quindici anni il Pil cinese (a prezzi 2015) cresce di circa 4-5 mila miliardi di huan l’anno, senza nessun segno di riduzione tendenziale. Il tasso di crescita cala solo perché, aritmeticamente al crescere del Pil dell’anno precedente (il denominatore del tasso di crescita), un certo aumento annuale del Pil in termini assoluti implica una riduzione del tasso di crescita.

Per valutare se la Cina sta rallentando è allora utile andare a vedere il rapporto tra il Pil cinese e quello globale. Questo rapporto (valutato a tassi di cambio che riflettono la parità di potere d’acquisto, una migliore approssimazione di quanto grande sia la produzione di un Paese rispetto al resto del mondo) è cresciuto dal 4,4% nel 1992 al 19% previsto nel 2024. Negli ultimi cinque anni l’aumento è stato di quasi 2 punti percentuali, non molto distante dall’aumento nei cinque anni conclusi nel 2015. Certo non si è tornati ai livelli dei quinquenni a cavallo tra il primo e il secondo decennio di questo secolo (quando la Cina guadagnava 4 punti ogni cinque anni), ma non c’è segno di un rallentamento tendenziale nel corso degli ultimi quindici anni.

È quindi perlomeno prematuro pensare che la questione della crescita economica cinese (e delle sue implicazioni geopolitiche) possa presto esaurirsi sua sponte. Già ora il Pil cinese (sempre a parità di potere d’acquisto) è superiore a quello americano di oltre il 15% e il divario aumenta di anno in anno. Resterà un tema per il prossimo decennio.