Università
Che disastro una società che si accontenta di appunti e dispense. Perché trova i libri troppo faticosi
Quattro studenti su dieci preparano gli esami senza mai aprire un manuale. E li superano. Così un sapere sempre più frammentato e fragile si fa sempre più strada
Poco differenzia più l’umano dall’artificiale, nell’epocale gioco di specchi che guida l’addestramento dell’Ia. Appartiene ancora all’uomo la capacità di cogliere i nessi di causalità e di estrapolare dal sapere, in modo intenzionale e consapevole, strumenti capaci di rispondere a esigenze nuove e impreviste: quella scintilla tra sinapsi che, più efficacemente dei modelli probabilistici, consente, pur con disponibilità di dati e velocità di elaborazione ridotte, di reagire all’ignoto.
Il vantaggio è in via di smarrimento.
Frammentata, parcellizzata, miniaturizzata, la formazione universitaria si sta liofilizzando: tra corsi formato mignon e studio ridotto in pillole, in sintesi della sintesi. Un sapere così minimo da poter essere condensato in una dispensa, in una raccolta di appunti, in un caos di mappe concettuali: in fogli squadernati di sbobinature di prima o di ennesima mano.
Lo ha appena dimostrato l’Associazione italiana editori con la ricerca intitolata “Le abitudini di studio all’Università”, affidata a Talents Venture e dedicata agli strumenti di studio dei giovani universitari. Risultato: più di 4 studenti su 10, interpellati sui materiali utilizzati per preparare l’ultimo esame, hanno dichiarato di aver fatto a meno di libri e di prodotti digitali editoriali. Ritenendo sufficienti appunti propri o di colleghi, riassunti scaricati dal web, slide, quiz, correzioni di prove d’esame precedenti. Materiali non strutturati, spesso progettati dai professori come supporto complementare. Che finiscono, invece, per essere l’unica fonte di studio.
Ma non era la realtà che abitiamo la terra della complessità? Un’epoca di problemi inediti, di accelerazioni tali da mettere alla prova paradigmi galileiani, aristotelici, positivisti? Insomma, se anziché affrontare le sfide in arrivo sperimentando nuove pratiche e teorie, sminuzziamo il sapere in un mosaico di tessere, basterà l’assemblage finale a comporre solidi e competenti professionisti?
«Ignorando il principio secondo cui conoscere è agire, la maggior parte degli individui post-moderni attua un cortocircuito di tutto il lavoro di conoscenza necessario, per assumere invece un’attitudine passiva che consiste nel domandare subito soluzioni e risposte», scrive il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag in “Cinque lezioni di complessità” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli). Come dargli torto: se gli esami si sono sgretolati in sottoesami, anticipi ed esoneri che danno crediti evitando di sostenere l’intera verifica a fine corso; se lo sguardo degli studenti si è accorciato sul brevissimo periodo - il giorno dell’esame - lo studio andrà di pari passo: sarà, appunto, a misura di dispensa.
«Questa eccessiva semplificazione in una fase formativa importantissima preoccupa non solo perché si perde una competenza più completa, ma anche per il venir meno della capacità di affrontare un testo nella sua interezza», nota Maurizio Messina, vicepresidente dell’Associazione italiana editori e presidente del Gruppo accademico professionale: «Un libro richiede tempo, concentrazione, fatica, autonomia. Il rischio è che i ragazzi escano dall’università senza aver acquisito un metodo: non hanno imparato a imparare».
I libri spaventano? Apriamoli, invece, «per scoprire che quello sgomento possiamo attraversarlo, ci somiglia. Non è incapacità o fragilità. Nessuno capisce niente all’inizio, poi si studia, si parla, si ascolta, ci si confronta, si osserva, si sbaglia. E certe volte non ci si capisce comunque», esorta la scrittrice Chiara Valerio su La Repubblica. Sulla comprensione dei testi, del resto, l’Italia tra i maggiori Paesi europei ha già un triste primato: solo il 24,8 per cento dispone di livelli elevati di analisi di ciò che legge: ben 11 punti percentuali ci separano dalla Norvegia e 10 dalla Francia e Germania (“Sfida al futuro”, libro bianco per i 150 anni di Aie).
«È molto preoccupante la formazione su materiali semplificati, senza controllo», prosegue Messina: «La formazione in Italia si sta sempre di più divaricando tra pochi campus d’eccellenza, rilevanti anche nelle classifiche internazionali, e tutti gli altri atenei con pochi studenti (e il tema demografico sarà sempre più serio per l’intera società nei prossimi anni), che abbassano l’asticella. Colpisce che siano i docenti a spingere sull’uso di materiali non editoriali». I dati d’iscrizione all’università parlano chiaro: saranno pure in crescita, ma la media italiana di laureati resta solo del 27 per cento rispetto a una media europea del 45 per cento.
«Siamo diventati analfabeti del nostro tempo. Più aumenta la capacità di creare connessioni cerebrali, attraverso l’educazione e l’apprendimento, più aumenta la capacità di creare sistemi complessi. Ma serve il valore della conoscenza», mette in guardia un divulgatore amato come Piero Angela nel volume “La meraviglia del tutto” (Mondadori), appena giunto in libreria grazie al suo storico collaboratore, Massimo Polidoro: «Per capire i dettagli prima bisogna aver afferrato il contesto, il concetto generale, è necessario riuscire a vedere il paesaggio per intero. È solo allora che i dettagli vanno a collocarsi nei punti giusti e a integrarsi in uno schema mentale generale. Altrimenti sarebbe come vedere una partita di calcio dall’interno della scarpa di un calciatore, mentre ciò che serve è anche un altro occhio, che dalla tribuna consenta di avere un’idea d’insieme del gioco, della sua dinamica, in modo da poter capire il senso della partita».
La metafora chiarisce l’idea. Ma il sospetto è che anche qui si inseriscano il presentismo e la tentazione di considerare ogni investimento finalizzato soltanto al qui e ora: non l’impegno per strutturare una formazione che duri anche in futuro. E il costo dei libri? Dall’indagine non emerge come un fattore decisivo di scelta. La domanda che guida è: funziona o non funziona? E il libro soccombe.
«Gli appunti hanno tutto ciò che serve per superare l’esame: è questa la motivazione espressa degli studenti. La loro facilità di utilizzo è tra le altre principali ragioni. Ma soprattutto per la maggioranza degli studenti un ruolo fondamentale lo giocano i professori: il fatto che questi materiali siano suggeriti da loro è la prima ragione di scelta», chiariscono Pier Giorgio Bianchi, Ceo, e Carlo Valdes, responsabile dell’attività di analisi dati di Talents Venture, che ha svolto l’indagine su mille studenti tra i 19 e i 30 anni. Sottolineando anche la marginalità d’uso delle risorse digitali: il 78 per cento preferisce studiare sulla carta. E se proprio ricorre al digitale, poi stampa. «A guidare le scelte, dunque, sono i professori», proseguono: «E questo ribadisce l’importanza del loro ruolo. Ma anche la difficoltà di catturare l’attenzione dei ragazzi. I professori sanno che gli studenti preferiscono materiali sintetici, hanno bisogno di sentirsi affiancati nel loro percorso. Questi testi ridotti potrebbero essere una precisa scelta strategica per conquistarli allo studio». Ma così facendo, non stiamo trattando l’università come un esamificio, la competenza come prodotto di una negoziazione e assecondando una cultura dell’affermazione che vieta di mettere i ragazzi di fronte a insuccessi e difficoltà?
Tom Nichols della Harvard Extension School, in un saggio di qualche anno fa dal titolo “La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” (Luiss University Press), metteva in guardia da uno studio che «si trasforma in incursioni ripetute in un buffet educativo per lo più imbandito con l’equivalente intellettuale del cibo spazzatura e una scarsa supervisione degli adulti a garantire che gli studenti scelgano un’alimentazione sana anziché rovinarsi lo stomaco». Ammettiamo pure, cioè, che i social stiano colonizzando l’attenzione generale, che gli schermi stiano erodendo la capacità di concentrazione, che di fragilità sociale si debba tenere conto, ma allora: chi insegna più il valore della conoscenza? Chi addestra senso critico, capacità di connessioni: chi arma i ragazzi di quegli attrezzi mentali che gli consentiranno di proseguire da soli, fuori dalla scuola e dalle aule universitarie, in un apprendimento che dura tutta la vita?
«È esattamente questo il problema: nessuno instilla più il valore della conoscenza», interviene Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis e saggista: «Viviamo nel primato degli schermi, cellulari e tv. E poiché ogni mezzo ha le sue peculiarità, le reazioni che provocano sono emotive, inducono alla formazione di pre-giudizi, a differenza del libro che attiva riflessioni e connessioni utili a un giudizio. Questa indagine va inserita in uno scenario più generale nel quale studiare sugli appunti è persino una cosa accettabile. Ancora più grave è il modo in cui oggi ci si informa e ci si forma. Proprio mentre stavamo colmando il digital divide un altro solco si è tracciato: il digital press, l’esclusione dalla nostra dieta quotidiana di libri e giornali, della carta stampata. Così perdiamo spirito critico».
Intanto la bignamizzazione investe l’intera società. Come segnala pure l’avanzata di collane editoriali dedicate ai saperi minimi, ai fili essenziali della conoscenza, vittime di superficialità e smemoratezza. Come Tessere, lanciata da Treccani Libri su argomenti come le tabelline, il teorema di Pitagora, la fotosintesi. Volumi dai formati accessibili, come Le Vele di Einaudi; tascabili su Darwin o su Kant come quelli della Piccola Biblioteca Morale di e/o.
«Lo studio era l’investimento sociale più redditizio», aggiunge Valerii: «E il sacrificio dava un rendimento, sia in termini di riconoscimento sociale che di guadagno, perché allo studio si attribuiva un valore. Oggi siamo nel ciclo dei rendimenti decrescenti: per quanto ti impegni, la conoscenza non darà un rendimento correlato. Basti pensare che il 34 per cento dei laureati svolge lavori per i quali basterebbe un titolo di studio inferiore. Conseguenze? Da una parte delusione e abbandono, dall’altra la stratificazione di titoli di studio, nell’illusione di essere più competitivi sul mercato». Come si reagisce? «Io credo che la conoscenza sia il modo migliore per essere più attrezzati ad affrontare il mondo che sta arrivando. Un tempo c’erano percorsi prestabiliti. In questo contesto conta solo la conoscenza. Ai giovani dico perciò: ribellatevi, ma ribellatevi studiando. L’obiettivo non deve essere quello di sfangare l’esame, ma di crescere in spirito critico, il mezzo più potente per decifrare il mondo».
Anche la Conferenza dei rettori delle università italiane è decisa ad approfondire la questione: «Sarà utile replicare l’indagine per fare valutazioni più sottili e per estenderla a più atenei e a un campione più significativo», interviene Alessandra Petrucci, rettrice dell’Università di Firenze e Delegata Crui per la Didattica: «Questa ricerca ci parla di modalità nuove di studio. Suggerisce ai docenti la necessità di utilizzare strumenti alternativi per favorire lo studio, modalità immersive, simulazioni digitali di prove dal vivo. Se temo un abbassamento delle competenze? No: le basi si costruiscono in molti modi, la cosa principale è oggi riuscire ad accendere la curiosità dei ragazzi, a coinvolgerli, affinché anche dopo irrobustiscano la loro formazione. Il docente deve sentire la responsabilità che dal suo insegnamento non dipende solo una scelta professionale ma anche il rapporto con la formazione futura». Con quegli aggiornamenti, ripassi e rattoppi che dureranno tutta la vita. Come benevolmente previsto un tempo dal maestro Alberto Manzi in tv, nel suo Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta: non è mai troppo tardi.