I lavoratori agricoli sono tra le principali vittime delle catene del valore globali. Sottopagati e con orari massacranti, spesso in mano ai criminali, per i braccianti le tutele sono poche o assenti. E le normative europee vengono rallentate dal nostro Paese

La schiena spezzata per pochi euro l’ora durante la vendemmia non compare sull’etichetta del vino venduto al supermercato, ma lo sfruttamento all’origine della catena produttiva esiste in tutto il comparto agroalimentare. Mentre si affievolisce la cosiddetta protesta dei trattori, migliaia di braccianti impiegati nei campi in Europa restano ancora senza tutele. Sottoposti ad abusi, rischi per la salute ed emarginazione, i lavoratori agricoli sono tra le principali vittime delle catene del valore globali che portano i prodotti ortofrutticoli a essere venduti dalla grande distribuzione.

 

In Italia, secondo il Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, che indaga il rapporto tra la filiera agroalimentare e la criminalità organizzata, nel 2022 sono state almeno 230.000 le persone impiegate in agricoltura in modo irregolare. Il loro sfruttamento vale 24,5 miliardi di euro, ma non esistono norme che riconoscano la responsabilità alle aziende che commerciano e distribuiscono i prodotti raccolti da questi lavoratori.

 

La legge numero 199 del 2016 prevede l’arresto di chi recluta manodopera allo scopo di farla lavorare in condizioni di sfruttamento, di chi la assume e di chi la utilizza. Tuttavia «nelle campagne lo sfruttamento è opera anche delle grandi multinazionali che poi vendono i prodotti finiti. Ma molto difficilmente queste vengono ritenute responsabili, dato che il reato è individuale e queste aziende non possiedono direttamente i campi dove si coltiva», spiega il ricercatore Eurispes Marco Omizzolo. Di fronte a processi frammentati di raccolta, trasporto, trasformazione e imballaggio, dimostrare che i prodotti venduti sugli scaffali dei supermercati provengono dai campi dove i braccianti sono sfruttati è complesso.

 

«L’Italia non ha mai sperimentato una politica di controllo e riforma sulla propria filiera agroalimentare perché altrimenti le multinazionali estere non comprano più: se si alzano gli standard a tutela dei lavoratori, con una filiera che attualmente è lunga e non trasparente, i costi aumentano e gli acquirenti cercano altrove», dice Omizzolo. In alcuni Paesi europei come Francia e Germania esistono leggi che obbligano le grandi imprese alla “due diligence” sulla tutela dei lavoratori, ovvero a verificare il rispetto dei diritti umani all’interno di tutta la propria catena di approvvigionamento. Manca tuttavia ancora una normativa comune.

 

I trattori della protesta sul Grande Raccordo Anulare di Roma

 

La direttiva europea sull’obbligo di “due diligence” per le multinazionali di ogni settore con più 500 dipendenti e un fatturato netto superiore a 150 milioni di euro va in questa direzione. A due anni dalla proposta, però, l’Italia è tra i Paesi che a febbraio hanno contribuito a far slittare il voto per la sua approvazione, che resta ancora in discussione al Consiglio dell’Unione europea.

 

Tra le sanzioni previste, con l’obiettivo dichiarato di contrastare sfruttamento, lavoro minorile e inquinamento, la direttiva potrebbe stabilire il “naming and shaming”, cioè la pubblicazione dei nomi dei trasgressori degli obblighi, il ritiro dal mercato dei prodotti e multe pari ad almeno il 5% del fatturato netto globale delle aziende coinvolte. Le imprese extra-Ue che non rispettano le regole rischiano poi l’esclusione dagli appalti pubblici europei e il blocco delle loro esportazioni verso l’Europa.

 

Il tessuto economico italiano è tuttavia composto principalmente da piccole e medie aziende agricole. Per questo secondo Jean-René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto, la responsabilità delle violazioni dei diritti umani deve riguardare tutti i datori di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni delle aziende.

 

Per prevenire lo sfruttamento e il caporalato, esiste la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità che istituisce sezioni territoriali dedicate a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro in modo legale, attraverso il coinvolgimento delle aziende del settore. Nei fatti però questa iniziativa è rimasta finora in gran parte disattesa. «Ogni provincia italiana dovrebbe averne una, ma solo 40 province su 108 sono dotate formalmente delle sezioni previste e quelle che funzionano davvero sono meno di 10 – dice Bilongo – succede perché c’è resistenza e reticenza da parte dei datori di lavoro nell’avviare questo sistema di controllo».

 

In Italia ci sono 1 milione e 145 mila aziende agricole, ma meno di 7.000 sono iscritte alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità presso l’Inps, di cui fanno parte le imprese che si distinguono per il rispetto delle norme in materia di lavoro. «Le aziende pretendono di avere degli incentivi per iscriversi, ma ognuno di noi ha delle responsabilità che deve assumersi, di mezzo non può esserci sempre il profitto. È come se mio figlio volesse essere pagato per lavarsi i denti», aggiunge Bilongo.

 

La raccolta delle arance nella piana di Rosarno in Calabria

 

Secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, le aziende hanno la responsabilità di intraprendere la “due diligence” sui diritti umani. Eppure, un decennio dopo la loro adozione, i parametri di riferimento e le analisi dimostrano ancora bassi livelli di impegno: quasi la metà delle maggiori aziende al mondo analizzate nell’ultimo Corporate Human Rights Benchmark non è riuscita a fornire alcuna prova di identificazione o mitigazione dei rischi e degli abusi legati ai diritti umani nelle proprie catene del valore.

 

Il problema colpisce prevalentemente le categorie più esposte allo sfruttamento, ovvero i lavoratori migranti. Secondo le stime, almeno 164 milioni di loro sono impiegati nelle catene di approvvigionamento internazionali. Come rivelato dal Business & Human Rights Resource Center, la maggior parte degli abusi all’interno delle filiere produttive nel mondo avviene sulla pelle dei migranti che sono impiegati in agricoltura. Aziende agricole, trasformatori e rivenditori dei prodotti permettono infatti che nei loro confronti si verifichino violazioni della retribuzione e dell’orario di lavoro e licenziamento arbitrario nel 64% dei casi esaminati, seguono le violazioni delle libertà personali, della salute e della sicurezza sul lavoro (36%), oltre alle pratiche di assunzione sleali (34%).

 

Risalendo tutta la catena del valore, lo sfruttamento parte proprio dalle operazioni di reclutamento. Anche in Italia, i migranti che lavorano come braccianti arrivano spesso attraverso l’intermediazione di trafficanti di esseri umani a costi insostenibili. Ciò si verifica anche quando l’assunzione avviene seguendo il sistema previsto dalla legge Bossi-Fini per la regolarizzazione dei lavoratori stranieri. Il datore di lavoro che deve fare richiesta per il loro impiego, infatti, dovrebbe conoscere i dati anagrafici di persone che nella maggior parte dei casi vivono in un altro continente e con le quali non ha mai avuto alcun contatto. Qui entrano in gioco i trafficanti, che fungono da tramite per reclutare i futuri lavoratori e permettere che la loro domanda di assunzione possa essere presentata al ministero dell’Interno. Ma è solo il primo passo verso una catena di sfruttamento che dai campi arriva nel carrello della spesa.