Il racconto dei membri dell'etnia armena che, dopo l'annessione azera, sono dovuti scappare dal territorio. «Una volta sognavo di andare a Venezia. Oggi di tornare nella mia terra»

Lacrime mute solcano il viso di Nune Kachhatryan mentre contempla l’album di fotografie che ritraggono lei, la sua famiglia, la sua terra: il Nagorno Karabakh. La donna, 55 anni, cittadina dell’Artsakh (nome armeno del Nagorno Karabakh), dopo l’aggressione da parte dell’Azerbaigian a settembre 2023, è fuggita dalla regione caucasica, come hanno fatto gli oltre 120 mila cittadini armeni che l’abitavano, e oggi vive da sfollata in una stanza di hotel a Goris. Le fotografie sono la sola cosa che è riuscita a portare con sé nella fuga. Mezzo secolo di storia privata e collettiva raccolto in diapositive che ricordano a lei, e a chi le guarda, un mondo semplice e laborioso, fiero e antico che oggi non esiste più.

 

«Mentre fuggivo a bordo di un Uaz, con i miei parenti, non riuscivo a guardare davanti a me; continuavo a voltarmi, piangevo e chiedevo perdono alla mia terra perché l’abbandonavo». Le foto che Nune mostra sono la vetrina della sua anima martoriata: «Questo è il giorno del mio matrimonio. Il mio sogno era andare in viaggio di nozze a Venezia; a quell’epoca, però, io e mio marito non potevamo permettercelo, ma ci eravamo promessi che prima o poi avremmo coronato questo desiderio. Oggi, invece, il mio sogno è poter tornare in Artsakh. Un sogno che mai più si realizzerà». Nune ha ragione: dal primo gennaio scorso l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh ha cessato di esistere e il regime azerbaigiano, a inizio febbraio, ha lanciato l’operazione “Grande Ritorno” che prevede l’assegnazione delle case abbandonate dagli armeni alle famiglie azere. In Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma formalmente parte dell’Azerbaigian, a seguito del collasso dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, dilagò la violenza tra forze armene e azerbaigiane.

 

Il conflitto provocò la morte di oltre 30 mila persone e vide la vittoria finale degli armeni. Dopo vent’anni di pace, il 27 settembre 2020, le truppe azere hanno attaccato l’autoproclamata Repubblica armena, prendendo il controllo di parte della regione; poi, in violazione agli accordi di cessate il fuoco, dal dicembre 2022 il Karabakh è stato isolato impedendo il transito di uomini e aiuti umanitari. E, dopo nove mesi di assedio, l’esecutivo azero ha lanciato l’offensiva finale che ha costretto all’esodo i cittadini armeni e che è stata definita un’operazione di pulizia etnica dal Parlamento europeo. Il presidente azero Ilham Aliyev, che il 7 febbraio ha vinto le elezioni con il 92% delle preferenze e che è al potere da oltre vent’anni, per riannettere il Nagorno Karabakh ha sfruttato gli effetti collaterali della guerra in Ucraina. A seguito dell’aggressione della Russia, infatti, in Europa si è molto dibattuto su come ottenere l’indipendenza energetica da Mosca: in Baku si è trovato un sodale partner per il rifornimento di gas e idrocarburi. L’escalation militare di settembre, con cui è stata decretata la fine dell’esistenza della Repubblica dell’Artsakh e della presenza armena nella regione, non ha portato però alla fine delle ostilità nel Caucaso meridionale, dove la tensione si sta nuovamente acuendo.

 

Il 13 febbraio scorso, quattro soldati armeni sono rimasti uccisi a seguito di un attacco da parte delle forze azere lungo il confine, i colloqui tra le due ex Repubbliche sovietiche si sono arenati e la leadershipazerbaigiana non fa mistero del suo interesse nei confronti della provincia armena di Syunik per poter così collegare l’exclave azera del Nachicevan con il resto del Paese. Intanto i profughi dell’Artsakh, come un popolo del vento, vivono in alloggi di fortuna e restano sospesi in un limbo, senza più avere un passato e senza sapere se una nuova guerra li travolgerà nel prossimo futuro. Così Nune, dopo avere mostrato le sue fotografie, sprofonda in un silenzio inconsolabile; negli occhi le si legge un misto di ricordi e rassegnazione. Prima di salutare, però, prende un piccolo sacchetto dalla valigia con cui è scappata e con devozione sacrale ne mostra il contenuto. «Questa è una zolla che ho preso dal mio cortile di casa prima di andarmene. L’ho presa per averla sempre con me e perché voglio essere sepolta con questa terra; in modo che, almeno da morta, io possa riposare in pace nella terra del mio Artsakh».

 

 

La replica dell'ambasciatore della Repubblica dell'Azerbaigian Rashad Aslanov
«Mi preme sottolineare che non esiste, in Azerbaigian, una regione denominata Nagorno Karabakh, bensì esiste la regione economica del Garabagh dell’Azerbaigian. L’Azerbaigian ha recentemente ripristinato la sua integrità territoriale e sovranità, nel quadro del diritto internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1993. Per quasi 30 anni i nostri territori sono stati occupati illegalmente dalle forze armate dell’Armenia, che hanno causato distruzione, rovine, morti, devastazione e oltraggiato il nostro patrimonio storico e religioso. Le forze di occupazione hanno cosparso di mine i nostri territori occupati, causando feriti e uccisioni, che proseguono ancora oggi. Ciò nonostante, con la liberazione dei nostri territori, l’Azerbaigian ha dichiarato con le parole e con i fatti di voler avviare una nuova convivenza pacifica con i residenti armeni.

Questi stessi hanno deciso di abbandonare le nostre terre autonomamente, diffondendo una falsa narrativa di odio e di esodo forzato. Oggi questi residenti sono liberi di fare ritorno in qualsiasi momento, a differenza dei circa 300.000 azerbaigiani, che ancora oggi non possono tornare alle proprie case, nell’attuale Armenia. Gli anni di occupazione sono stati caratterizzati da dolore indicibile per il mio popolo: circa 1 milione di azerbaigiani, tra profughi e rifugiati, non hanno potuto per decenni fare ritorno alle proprie case, neppure per visitare le tombe dei familiari. Sono questi stessi azerbaigiani e i loro discendenti che oggi stanno facendo il grande ritorno nel Garabagh, nelle proprie case. 

Vorrei ricordare anche che non è stato l’Azerbaigian a violare gli impegni del cessate il fuoco del 2020: per quasi 3 anni, dopo la firma della Dichiarazione tripartita da parte dei leader di Azerbaigian, Armenia e Federazione Russa, l’Armenia non ha adempiuto agli impegni presi e ha preservato le sue forze armate, 15.000 unità, all’interno dei nostri territori, ha provveduto alla loro rotazione, ha depredato le nostre terre di minerali, e ha continuato a cospargere nuove mine.

L’Azerbaigian in questi anni ha vissuto momenti terribili, basti citare quanto avvenuto a Khojaly nella notte tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, e mi spiace che l’articolo non ne faccia menzione: sarebbe corretto raccogliere le testimonianze degli azerbaigiani che hanno sofferto 30 anni di occupazione e hanno vissuto il terrore armeno.

Ma aggi siamo di fronte ad un’occasione storica, la pace nel Caucaso meridionale è davvero vicina, e tutta la comunità internazionale è chiamata a collaborare per questo obiettivo».