La giornalista Rai e l'operatore Miran Hrovatin erano in Somalia per denunciare con i loro servizi i ricchi traffici di armi. E la loro morte è rimasta senza giustizia. Mentre troppi cronisti vengono ancora uccisi perché fanno il loro lavoro

Quando la corrispondente della Cnn, Christiane Amanpour, ricorda che durante l’assedio di Sarajevo la sua troupe trovò i fori dei proiettili tra la “T” e la “V” impresse sul furgone, arriva a una conclusione: i cecchini la presero intenzionalmente di mira. Così, in quella guerra s’infranse l’inviolabilità dei giornalisti in zone di conflitto. Questi ultimi – sancisce il primo protocollo aggiunto nel 1977 alla III Convenzione di Ginevra del 1949 – «saranno considerati come persone civili» nelle loro «missioni professionali pericolose» e «saranno protetti in quanto tali». Un principio che appare come un’illusione.

 

Ancora di più nell’anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin. Inviati del Tg3 in Somalia, stavano ricostruendo le piste del traffico di armi e rifiuti tossici di cui il Paese africano era base: in un contesto torbido, in mezzo a una lotta fratricida, avevano scoperto tracce che conducevano fino all’Italia. Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, un’esecuzione a sangue freddo li fermò. Sono trascorsi trent’anni. Ma le indagini, i processi e una commissione parlamentare d’inchiesta non sono bastati ad accertare i mandanti e il movente ufficiale. Anche se più forti di omissioni e depistaggi sono stati i genitori di Alpi, Giorgio e Luciana, scomparsi nel 2010 e nel 2018: la loro costante richiesta di verità ha impedito che sulla vicenda calasse il silenzio.

Libertà di stampa
Omicidio Rocchelli, la verità senza giustizia. Una storia paradigmatica
19-03-2024

Intanto, nel mondo, il copione s’è ripetuto. L’11 maggio 2022, Shireen Abu Akleh è stata ammazzata mentre raccontava per Al Jazeera l’intervento dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Nonostante indossasse elmetto e giubbotto con scritta “Press”, un colpo l’ha centrata alla testa. Dopo aver accusato i palestinesi, Tel Aviv ha ammesso che potrebbe essere stato un suo soldato a sparare per errore, ma che non lo avrebbe individuato. E proprio nei Territori occupati si sono concentrate le violenze contro i giornalisti negli ultimi mesi. L’inferno scatenato nella Striscia di Gaza dalla reazione israeliana agli attentati di Hamas si aggiunge ad altri scenari – dall’Est Europa al Sud America – in cui combattimenti, criminalità organizzata e regimi autoritari soffocano la libertà di stampa.

 

Secondo Reporters sans frontières, i giornalisti uccisi nel 2023 sono 50 e nel 2024 sarebbero già nove. Per il Committee to Protect Journalists, si sale a 99 nel 2023 e a undici nel 2024. Ci sono poi quelli feriti, imprigionati, spariti nel nulla. I numeri non combaciano perché ogni organizzazione segue criteri diversi nel conteggio, distinguendo tra chi ha perso la vita in servizio o in agguati e chi è rimasto sotto le bombe o nel fuoco incrociato. Tutti, comunque, sono morti in luoghi a rischio per fare il loro lavoro.

 

Nella maggior parte dei casi, i fatti e i colpevoli restano avvolti nella nebbia. Ha senso cercarli in situazioni senza regole, in una babele di violazioni dei diritti umani? Le vittime sono effetti collaterali, se non ostacoli che il potere ha scientemente eliminato. Ecco che le coscienze si ritirano davanti a questa impunità. Nel rinnovare la memoria di Alpi e Hrovatin, invece, occorre guardare a un altro anniversario che ricorrerà il prossimo 24 maggio, la stessa data in cui era nata Ilaria: l’omicidio di Andrea Rocchelli, avvenuto in Ucraina nel 2014. Si tratta di una storia paradigmatica dove si è dimostrato che, qualora vi sia la volontà, i crimini contro i giornalisti possono essere perseguiti. Dove non si è stabilita la responsabilità di singoli, ma quella di uno Stato. Dove non si è avuta giustizia, ma si è delineata la verità.