Pane al pane
«Il calo demografico è un problema gigantesco. E chi lo sottovaluta si sta illudendo»
La popolazione in Italia continua a diminuire, ma qualche osservatore dice di non preoccuparsi. Invece bisogna allarmarsi perché manca una soluzione adeguata
In Italia i nati nel 2023 sono stati 379 mila, il minimo storico e l’undicesimo anno di fila di minimo storico. Il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) è sceso a 1,20: il secondo livello più basso dopo il 1995 (1,19). Il che dice, fra l’altro, che il numero dei nati scende anche per un processo cumulativo: se trent’anni fa c’erano meno nati, dopo trent’anni ci sono meno potenziali genitori. La popolazione al primo gennaio del 2024 è scesa a 58 milioni e 990 mila unità, il decimo anno di calo consecutivo.
Quanto dobbiamo preoccuparci? Una scuola di pensiero ritiene che il problema non sia grave (vedi, per esempio, l’articolo di Cipolletta su Domani del 30 marzo scorso) per due motivi. Il primo, banalizzando, può essere riassunto col titolo di una celebre trasmissione di Renzo Arbore: “Meno siamo, meglio stiamo”. Fossimo meno, non staremmo meglio? Buona parte del nostro territorio è montagnoso e la nostra densità per area abitabile è più alta di quella di Francia e Germania. Che problema c’è se stiamo un po’ più comodi? A meno di preoccuparci della nostra capacità bellica (gli «otto milioni di baionette»), una minore popolazione non può che essere un fatto positivo. Il secondo motivo è che, a livello mondiale, la popolazione continua a salire, il che significa che possiamo sempre contare sull’immigrazione da altri Paesi per fare fronte agli squilibri che derivano da una popolazione in discesa e che invecchia.
Credo invece che sia necessario essere preoccupati. Primo: un tasso di fecondità di 1,20 non significa solo che la popolazione scende e che si stabilizza su un livello più basso, ma pure che continua a scendere per sempre. Non è che si può facilmente dire: teniamo il tasso di fecondità a 1,20 per un po’ e poi riportiamolo a 2 in modo da stabilizzare la popolazione a livelli più bassi. Sono processi che una volta avviati sono difficili da correggere. Il secondo motivo riguarda la transizione da un livello più alto a un livello più basso di popolazione. Per tutta la durata della transizione, il numero di persone che lascia il mondo del lavoro supera quello dei nuovi entranti. Al momento, a parte gli immigrati (vedi sotto), per due persone che escono una sola entra nel mondo del lavoro. Non stupiamoci quindi se mancano medici, infermieri, idraulici, ingegneri, fornai che devono curarsi degli anziani.
Ci sono facili soluzioni? No. Un’immigrazione regolare è necessaria, ma se irregolare o troppo rapida genera problemi di integrazione e tensioni sociali (se amassimo il prossimo nostro come noi stessi sarebbe diverso, ma non viviamo ancora in quel mondo). E poi non è facile “importare” lavoratori con un adeguato livello di conoscenze, per esempio, mediche. Un aumento della produttività sarebbe una soluzione (meno persone lavorano, ma sono più produttive). Ma studi econometrici dimostrano che la produttività cresce meno in popolazioni che invecchiano. Si può spendere di più per la natalità: ma servono un mucchio di soldi e il nostro debito pubblico è un ostacolo. Si può aumentare il numero di occupati per persone in età lavorativa, ma questa è una soluzione temporanea.
C’è allora solo una giustificazione per considerare il calo demografico come un problema di poco conto. In assenza di un’ovvia soluzione, meglio illuderci che il problema non esista.