Il teatro e la televisione. La politica e la censura. «È un periodo d’oro per la satira. Abbiamo i Delmastro, di qua, ma pure i Renzi, di là. Sangiuliano? Sembra solo il ministro della promozione di sé stesso, però sulla cultura tutti dovrebbero fare un esame di coscienza». Intervista a tutto campo con il comico genovese

A vederlo proprio non si direbbe. Cosa? Quasi tutto. Tutto quello che in questi anni Luca Bizzarri ha mostrato, raccontato, doppiato e scritto, sbucando dagli schermi piccoli e grandi, dalle tavole dei palcoscenici, e ora persino dal podcast delle meraviglie, ascoltato al punto da essere diventato uno spettacolo teatrale, ecco quell’attore di cui si pensa di conoscere ogni smorfia arguta in realtà è anche qualcosa di diverso, che arriva all’improvviso. L’inaspettata solitudine di un comico che lavora in coppia con Paolo Kessisoglu («ormai conosco ogni suo respiro, quando scrivo sento la sua voce, e so già come la farà»), la malinconia del giullare, che sbuca tra i colpi di clava, la tenerezza cinica, che lo porta a parlare d’amore sì, ma che alla fine al vaporoso sentimento di Fabio Concato sceglie i versi di Ivano Fossati. E ci piange un po’ su. 

 

«È il meccanismo ottuso di un orologio falso americano che misura il tempo e tempo non c’è più, ma fermava il tempo se passavi tu». Così si chiude il suo spettacolo “Non hanno un amico” che non è esattamente un monologo romantico, anzi e in un mondo in cui ormai vale tutto cerca di andare avanti a colpi di buonsenso. Eppure quella chiusa ci sta benissimo, racconta tanto di Bizzarri, e pure di chi lo spettacolo lo guarda battendo le mani. «La teoria dell’underdog che va tanto di moda di questi tempi è la più grande fortuna della mia vita, il fatto che nessuno si aspetti mai niente da me poi si gira a mio vantaggio», dice ridendo, e facendoti ridere, senza fatica. Perché Luca Bizzarri l’ironia la manifesta anche mentre sgranocchia le noccioline di un aperitivo dopo teatro, «giusto due bibini, per non rovinare l’appetito». 

 

Genovese di carne e di spirito, nasce nel mondo del teatro, quello vero, studiato all’Accademia e poi messo in pratica con soddisfazione e due modelli da imitare, Giorgio Gaber e Marco Pannella: «Ascoltando le notti di Pannella ho imparato da questo grande oratore i toni, i colori, quando accelerare e quando rallentare». E da Gaber? «Tutto il resto. La prima volta che ho pensato di fare l’attore è stato dopo avere visto un suo spettacolo. Una volta feci un fioretto: se fossi riuscito a entrare alla scuola dello Stabile sarei andato a vedere tutte e 15 le repliche. E la bidella della scuola alla quindicesima mi ha detto: vabbè, ti ho fatto un regalo, il signor Gaber ti aspetta in camerino. Abbiamo fumato 5 Marlboro in mezz’ora e mi ha detto tutto quello che mi sarebbe servito».

 

Certo passare dalla tragedia di Shakespeare alle gesta di Salvini è stato un bel salto, niente da dire. «Ah certo, posso vantarmi di avere fatto Amleto con Benno Besson anche se tenevo solo l’alabarda, poi è arrivato il momento in cui ho dovuto decidere tra il continuare così a centomila lire al giorno oppure fare “Ciro, il figlio di Target” su Italia 1 a un milione e mezzo a puntata e non c’è stato proprio il dibattito. Fare teatro significava andare avanti col bancomat di mamma in tasca, scegliere la televisione invece voleva dire avere un bancomat mio». Ma quindi era proprio questo che voleva fare da grande? «Io da grande volevo essere Gabriele Lavia, non uno simile, proprio lui. Ma non ce l’ho fatta. Per adesso però, mica è finita». C’è tempo Bizzarri, c’è tempo. «Vero, però ormai sono vecchio, ho fatto un sacco di cose anche se mi sembra di avere fatto sempre la stessa. Doppiare un cartone, presentare Sanremo o fare il mio spettacolo, alla fine è sempre la stessa messa in scena. Indossare una maschera e mettersi nei panni di qualcun altro. Io sono profondamente contrario al detto “sii te stesso”». 

 

La maschera dell’attore, qualcosina sopra è stato scritto. Ma si potrebbe a questo aggiungere una postilla sui social, di cui Bizzarri è imperatore molesto, il twittarolo che litiga e non molla per il semplice gusto di farlo. «Certo, anche la mia attività social è una messa in scena. Ma sa perché rintuzzo fino all’esaurimento? Le racconto una cosa che viene da lontano. Il mio papà carabiniere era un gran rompicoglioni e quando si discuteva metteva sempre un “però” alla fine della frase: sì sono d’accordo però… Mi faceva impazzire, possibile che non fosse mai d’accordo fino in fondo neanche una volta? E io ho preso da lui in questo senso». Ma non si annoia a discutere sempre? «In realtà discuto proprio perché mi annoio, tipo se sono in treno. Apro Twitter e cerco qualcuno con cui bisticciare, tanto è facile. In questo momento è tutto così poco serio, anche le morti, anche le guerre, ti viene sempre richiesto di prendere posizione a tutti i costi, come se fosse sempre possibile sapere qual è la parte giusta in cui stare».

 

È facile litigare di questi tempi, ma anche facile far scattare la risata. «Per gente come me che fa satira questo è davvero un periodo d’oro. Abbiamo i Delmastro, ma anche gli Emiliano, i Calenda e i Renzi, insomma di qua e di là, non importa, non ce n’è uno che non possa darti un bello spunto, basta aspettare e poi arrivano tutti. E di questo gli sono un po’ grato».

 

 Un grande mischione indistinto, dove non ci sono i buoni e neanche i cattivi, che cos’è la destra, cos’è la sinistra, come cantava Gaber. «A volte mi chiedo come sia possibile che oggi i potenti se la prendano tanto per le parole di un comico e poi mi dico che semplicemente non ci sono più i potenti di una volta. Siamo giullari, non dovremmo contare più di tanto. Eppure, questi qua hanno paura di noi, e non si ricordano che un uomo come Berlusconi, che è stato l’oggetto di milioni di sberleffi, persino sulla flaccidezza delle natiche, ha sempre preso milioni di voti per quasi 30 anni. Questo avrebbe dovuto insegnare a questi poveretti che ci sono ora che la cosa migliore sarebbe lasciarci stare». Invece si lamentano e fanno chiamare dai loro assistenti il mercoledì mattina, dopo la copertina di “DiMartedì”. «Una volta mi ha chiamato Rocco Casalino piccato per una battuta. Cioè, il portavoce del presidente del Consiglio che perde dieci minuti della sua preziosa vita per parlare con me. Incredibile no?». Effettivamente non è un bel segnale. «No per niente, anche perché o fanno così, si incazzano, strepitano o ancora peggio vogliono salire sul paco con te. E a me non piace neanche questo. Il politico non deve esserci né per ridere né per offendersi, con il comico non si deve neanche sfiorare. Io faccio il mio e lui fa il suo, ognuno ha il suo mondo. Invece ora tutti vogliono dirti: “Io sono come te”. Ma io non voglio che tu sia come me sennò ci vado io».

 

Però non ci è mai andato e non ci pensa proprio («È l’ultima cosa che farei nella vita, non potrei mai vivere in questa perenne campagna elettorale»), anche se con la politica ha dovuto avere a che fare giocoforza, da presidente di Palazzo Ducale. «Quando mi hanno chiesto se ero disponibile ho pensato: sono capace di farlo? No. Mi conviene farlo? No. Quindi ovviamente ho accettato. L’unica condizione posta a Toti era di potere continuare a fare satira tranquillamente, anche su di loro. Sono stati talmente d’accordo che a fine mandato hanno cacciato via sia me sia la direttrice. Mi sono accorto che sarebbe stato molto complicato quando in una delle prime riunioni è arrivato l’assessore alla Sicurezza con una ruspa sulla cravatta. E ho pensato: ma come posso rimanere serio?». 

 

Effettivamente difficile, ma anche oggi a parlare di cultura viene un po’ da ridere, se non ci fosse da piangere: «Io Sangiuliano davvero non lo capisco, più che della Cultura mi sembra il ministro della promozione di sé stesso. Ma parliamoci chiaro: credo che questa destra non farà molti più danni di quelli fatti dalla sinistra. Sino a ora ha evitato i disastri perché di cultura non si è mai occupata. Una volta il sindaco di Genova Bucci mi chiese di fare una mostra per insegnare ai cittadini a fare la raccolta differenziata. Ho provato a spiegargli che questa era educazione civica, che la storia dell’arte veniva all’ora dopo, ma capivo che loro non avessero proprio idea di cosa fosse il “fare cultura”. La sinistra invece l’ha trasformata in cosa nostra, un amico lì, l’altro là, ci scambiamo i premi e così via. Insomma, prima di dare grandi colpe alla destra la sinistra dovrebbe fare un bell’esamino di coscienza».

 

E la televisione? Non tira una bella aria soprattutto in Rai e soprattutto per la satira. «La satira politica è sparita in Rai da almeno 10 anni, dal momento in cui ha cominciato a dare fastidio alla politica tutta. È vero che c’è un’occupazione della destra, ma quando mai non c’è stata? Io ho sempre detto e fatto quello che volevo, ci sono riuscito con Paolo persino a Sanremo sotto la direzione di Mazzi che è un uomo di Meloni, e ho detto tutto. Però le dico anche che l’unica volta che sono stato censurato è stato per un artista di sinistra che ha preteso il taglio di un pezzo in cui lo prendevamo bonariamente per il culo. Mi sono arrabbiato? No, ho riso molto».

 

Oggi Luca Bizzarri gira l’Italia in tournée («abbiamo date fino a dicembre»), cura il suo podcast («sta diventando una dipendenza, e io sono un po’ facile alle dipendenze»), resta nella sua isola felice de La7 anche se alla parola Discovery appare una smorfia da monello («Quelle sono cose di Caschetto, io non dico niente») e per il momento va bene così: «Non so se in questo momento in televisione farei altro. Neanche una prima serata, l’idea di ricominciare quella vita di merda in attesa degli ascolti del giorno dopo, no grazie. Ormai ho un’età che mi permette di pensare cosa voglio fare più che al dove lo voglio fare. Sono nella fase “Colpi di timone” di Gilberto Govi, che pensa di stare per morire e quindi dice tutto quello che pensa. Govi o Vittorio Feltri, che più o meno siamo lì». Una bella immagine di speranza, grazie Bizzarri. «Non scherziamo, io messaggi di speranza? Un genovese che ti dà speranza non esiste».