Musica
Paolo Fresu: «Non sono d'accordo con Dylan, la musica può cambiare il mondo»
L’omaggio a John Coltrane nel suo festival a Berchidda, sul tema "A love supreme". Il docufilm sulla storia di Time in Jazz. L’amicizia con Michela Murgia, i miti Dylan e De André. “Fabrizio era diventato sardo a tutti gli effetti”
Mai fermarsi alle apparenze, ma a volte i cliché raccontano molto di persone e popoli. Del resto ci vuole una certa testardaggine per inventare un festival musicale a 26 anni, nel 1988, e accompagnarlo fino a oggi. Quest’anno Paolo Fresu festeggia la 37esima edizione di Time in jazz (8-16 agosto) con un documentario, “Berchidda Live. Un viaggio nell’archivio Time in Jazz” (distribuito dalla Cineteca di Bologna), scritto e diretto da Gianfranco Cabiddu, Michele Mellara e Alessandro Rossi, che ripercorre la storia della manifestazione che ogni anno trasforma il borgo della Gallura (Sassari), dove è nato il grande trombettista, in una delle capitali della musica afroamericana. «Sarà un’edizione molto corposa. Ogni volta scegliamo un tema: due anni fa con “Rainbow” abbiamo messo al centro la diversità, l’anno scorso “Futura” era dedicato alle nuove generazioni. Questo, “A love supreme”, parte dalla mitica registrazione di John Coltrane e parla di amore universale, pace e spiritualità. Il festival spera di avere anche una valenza politica, non solo culturale», dice Fresu. Gli autori del film hanno passato al setaccio 1.500 ore di materiali video, per la maggior parte inediti, poi digitalizzati e oggi conservati dalla Fondazione Home Movies, per ricavarne un film concerto di novanta minuti, ora nelle sale, che accende i riflettori su grandi ospiti musicisti, attori e scrittori: tra gli altri Erri De Luca, Lella Costa, Marco Baliani, Ornette Coleman, Carla Bley, Uri Caine, Enrico Rava. Il cast di quest’anno, tra ottimi musicisti e star (tra gli altri il sassofonista americano Kenny Garrett, Vinicio Capossela, lo scrittore americano Ashley Kahn), risulta all’altezza.
Paolo Fresu, perché questo docufilm proprio adesso?
«Documentiamo da sempre quello che accade nel festival, crediamo di dover lasciare un segno, un giorno i nostri figli vorranno sapere cosa è accaduto a Berchidda. Anche se poi la musica cammina nel vento».
“A love supreme” di John Coltrane, che quest’anno dà il titolo al festival, è uno degli album fondamentali della storia del jazz. Quando l'ha ascoltato la prima volta?
«Quando ho scoperto Coltrane sono rimasto folgorato, è qualcosa che ti arriva addosso con una violenza incredibile. Sul quintetto ho lavorato per mesi, avrò avuto 18 anni: ascoltavo “’Round Midnight” mille volte al giorno, ero talmente sconvolto dal suono della tromba di Miles (Davis, ndr) con la sordina che mi ero addirittura comprato un microfono e una cuffia, affinché potessi arrivare ad avere lo stesso. Ho trascritto il brano nota per nota, ci avrò messo dieci giorni: conoscevo i silenzi, i fiati, le inflessioni. Dopo l’assolo di Miles arriva quello di Coltrane con il sax tenore, travolgente, sconvolgente. Coltrane era all’opposto della filosofia di Miles: qui sta la sua genialità nello scegliere i partner».
Perché proprio “A love supreme” per il festival?
«L’idea nasce da un incontro a New York. Qualche anno fa ero lì a suonare con Omar Sosa al Blue Note: a fine concerto venne a trovarmi Ashley Kahn, uno scrittore straordinario, autore di due libri fondamentali per conoscere la storia del jazz, pubblicati in Italia per Il Saggiatore. Avevo già letto il suo “Kind of blue”, sulla storica seduta di registrazione di Miles Davis. Kahn mi regalò la copia dell’altro suo libro, “A love supreme”. Nel viaggio di ritorno da New York a Roma l’ho letteralmente divorato, è di una bellezza sconvolgente».
Durante il festival si terrà un concerto a L’Agnata, in quella che fu la residenza di Fabrizio De André, nella campagna di Tempio Pausania. Saranno in scena Neri Marcorè, in veste di cantante, e la Scarlet Rivera Band. Come si articolerà il live?
«Scarlet Rivera ha una storia incredibile, è stata la violinista di Bob Dylan per diverso tempo. Scarlet è il fulcro intorno al quale si muove la relazione tra Dylan e il mondo di De André e ha curato la traduzione in inglese della canzone “Hotel Supramonte”. Al concerto a L’Agnata ci saranno anche Andrea Parodi, che lavora con Rivera, e uno dei batteristi di Leonard Cohen: sarà questo il primo nucleo di lavoro per la rilettura di Fabrizio. Di volta in volta, negli ultimi quindici anni ho invitato a casa De André artisti pop o della world music per cantare le sue canzoni. Un pellegrinaggio a cui hanno partecipato, tra gli altri, Ornella Vanoni, Morgan, Teresa De Sio, Rita Marcotulli, Daniele Silvestri, Gianmaria Testa, Malika Ayane. Quest’anno tocca a Neri Marcorè, che ha portato in giro uno spettacolo su De André ed appassionato della sua musica. Neri canterà Fabrizio e racconterà i suoi legami con i testi di Dylan, spiegherà al pubblico la genesi di alcune sue canzoni».
A proposito, Dylan disse una volta: «Non ho mai scritto una canzone politica. Le canzoni non possono cambiare il mondo». È d’accordo?
«Credo invece che la musica possa contribuire al cambiamento del mondo, ma per trasformarlo bisogna unire le forze: buone pratiche, pensieri, capacità di ascoltare e tendere la mano. Da questo punto di vista un festival come il nostro è prezioso, le persone che vengono a Berchidda si dispongono all’ascolto quando si trattano argomenti importanti: il Pianeta, la società, quello che ci accade intorno».
Tornando a De André, si sa quanto abbia amato profondamente la Sardegna. Si può diventare sardi o sardi si nasce?
«Siamo un popolo apparentemente chiuso, ma non è sempre vero. Non a caso si intitola “Sardegna quasi un continente” uno dei libri più belli sulla mia terra, scritto da Marcello Serra. Quando un sardo accetta il prossimo lo fa per tutta la vita, ma chi viene da fuori per essere accettato deve essere schietto, solidale, conoscere quell’universo. Fabrizio l’ha fatto completamente: quando parlava dei pellerossa, dell’abitare in una riserva, raccontava i sardi in una maniera straordinaria. Non ha dimenticato di essere stato rapito, ma ha perdonato. Si può considerare sardo a tutti gli effetti».
A proposito della sua terra, Michela Murgia è scomparsa quasi un anno fa dopo una lunga malattia. All’epoca lei scrisse su Facebook: “Michela era sé stessa. Non piaceva a molti perché era donna, perché denunciava le brutture del presente e la mancanza dei diritti, l’equità e la libertà ma, soprattutto, la dignità. Non nego di non averla capita neanche io a volte”. Nel 2011 avevate lavorato insieme, eravate amici?
«Ci conoscevamo bene, la nostra amicizia non era così forte ma ci siamo incontrati tante volte. In occasione della tournée dei miei 50 anni venne a leggere un suo testo a Stintino. Stavamo su due barche una accanto all’altra, a un certo punto durante il live lei mi guarda e mi dice preoccupata: “La mia barca non sta a posto, sto annegando”, perché imbarcava acqua (sorride). Talvolta non eravamo allineati, come quando è entrata in politica in Sardegna. È stata una persona straordinaria, difficile. Non mandava a dire le cose, per questo si è fatta molti nemici. Un’intellettuale impegnata su tanti fronti. La sua dipartita lascia un grande vuoto».