L’espressione si presta a ironie e sarcasmi troppo facili. Ma soprattutto sta a indicare qualcosa che non esiste. L’accordo nel centrosinistra però va costruito. Partendo dai fondamentali

Caro direttore,

 

sfrutto la tua ospitalità per lanciare un accorato appello a Elly Schlein & C., ma anche a tutti coloro che a torto o a ragione marciano sotto le bandiere del centrosinistra, vivaci o sbiadite che esse siano. Eccolo: non chiamatelo più «campo largo», cassate questa espressione dal vocabolario politico, dimenticatela per sempre. E trovatene un’altra.

 

Per almeno due ragioni. La prima è di comunicazione. A furia di evocarlo, ’sto campo, si è finito per consumarne l’immagine, svilirne il messaggio, trascinarlo verso le più sguaiate irrisioni. Se n’è fatto beffe Marco Marsilio che, giocando sul suo metro e novanta o giù di lì, ha sbeffeggiato: «In Abruzzo il campo lungo ha battuto il campo largo», e l’indomani i giornali hanno inevitabilmente titolato «Campo largo, voto stretto»; in Sardegna, invece, il campo è diventato «stretto, ma giusto» (Schlein), e viene ora scaramanticamente definito «stretto ma vincente» da Piero Marrese, candidato in extremis a guidare la Basilicata; Regione dove invece, secondo Giorgio Mulè, il campo «è stato già arato», non c’è più niente da fare. Per non dire di Giorgia Meloni, fuoriclasse della comunicazione pop, che ha romanamente scolpito: «Campo largo de che? Manco se salutano!». E non poteva che finire con il «camposanto» evocato da Fiorello, anche se il copyright ce l’ha l’immaginifico Vincenzo De Luca. Insomma, del concetto evocato da quella formula politica, è rimasto ben poco. E allora la questione si fa ancora più grave perché, dicevano i latini, nomen omen, in ogni nome è segnato il suo destino; e, insegnava il Sommo, «nomina sunt consequentia rerum», i nomi sono conseguenza delle cose che rappresentano, insomma della realtà: ma se le cose sono rappresentate senza esistere e nemmeno realizzarsi via via, be’, allora sono dolori. È il vuoto.

 

Qui non si azzardano soluzioni, ci mancherebbe, magari si consiglia solo la massima semplicità. Di là, per capirci, c’è un’alleanza di centrodestra, e allora perché non opporre di qua un’alleanza di centrosinistra, e chiamarla così? Se non altro, chi se ne tenesse a distanza confesserebbe di non credere nella necessità di un’alleanza, o addirittura di non riconoscersi nel centrosinistra stesso, con o senza trattino: sarebbe un elemento di grande chiarezza. Chi ce sta ce sta, direbbe Meloni.

 

Certo, tutto è ancora da costruire, per forza, ma forse il punto d’arrivo apparirebbe meno vago, insomma più netto, più esplicito, e spingerebbe ciascuno a dire se vuole davvero provare a farla quest’alleanza, oppure no. Poi, s’intende, comincerebbe il lavoro più difficile, e toccherebbe prima di tutto a Pd e M5S. Intorno a tre questioni principali. La prima potrebbe essere riassunta nel motto «scurdammoce ’o passato»: i nipotini di Beppe Grillo sono nati e cresciuti vomitando veleno sul Pd-Bersani detto Gargamella, Fassino «un solo globulo rosso», Prodi «Valium» – e non si può dire che Carlo Calenda, ma anche Matteo Renzi (e pezzi di Pd) non abbiano riservato trattamento simile ai seguaci di Giuseppe Conte: «Scappati di casa populisti, incapaci». Ma se si insiste a ricordare solo gli insulti e le maleparole vuol dire che l’alleanza non la si vuole.

 

Superato il primo, grosso ostacolo si dovrebbe cercare un accordo sui temi irrinunciabili, e un compromesso sugli altri, scegliendo tra Ucraina, Donald Trump, salario minimo, tasse… E infine riconoscere una forma di leadership, e qui il test europeo darà una mano. Sì, vaste programme, un lavoraccio, ma necessario. Magari cominciando dal nome. Sempre che, come avverte Romano Prodi, non vogliano continuare a perdere.