Un’atleta iraniana respinge gli ordini di regime che le vogliono impedire di combattere con una rivale israeliana. Una decisione che paga con l'esilio. In un film ispirato a storie vere che unisce sport e diplomazia

Se non fosse vero sembrerebbe una trovata pubblicitaria, di quelle inattaccabili oltre che irresistibili. Un regista israeliano e una regista iraniana, due persone che in teoria non dovrebbero nemmeno incontrarsi, dirigono insieme un film che racconta proprio questo: la ribellione di una atleta di Teheran che durante i mondiali di Judo respinge gli ordini di regime scegliendo la rivolta e l'esilio. Dettaglio chiave: se dall'alto arriva l'ingiunzione di fingere un infortunio è proprio perché, un match dopo l'altro, la campionessa iraniana Leila (Arienne Mandi) rischia di dover affrontare un'atleta israeliana.

 

È un caso di “mise en abyme” da manuale: ciò che accade sullo schermo si riflette in quanto accade dietro la macchina da presa. Mai si era visto un film diretto a quattro mani da un israeliano e un'iraniana. Ma la storia stessa ha solide radici nella realtà. Non si contano infatti gli atleti, o le atlete, che per non sacrificare la gloria alla ragion di stato (islamico) hanno deciso di ribellarsi, magari non indossando l'hijab, e talvolta di fuggire all'estero. 

 

Il copione rielabora diverse di queste vicende fondendole in una scansione irresistibile che sembra guardare a certo cinema Usa anni 50-60. Bianco e nero, macchina da presa mobilissima, naturalismo spinto al punto di incandescenza, tutta una serie di codici che giocano con le nostre attese incrociando il linguaggio del cinema epico con la sintassi delle dirette sportive (il cinema sullo sport ha sempre sfidato la tv in casa).

 

La chiave è nel contrasto tra ciò che appare e ciò che accade veramente. Sul tatami Leila sconfigge una dopo l'altra, in condizioni sempre più drammatiche, una serie di rivali delle più diverse nazionalità. Dietro le quinte, ma sotto i nostri occhi (le video chiamate hanno un ruolo decisivo nel fondere il Qui e l'Altrove), si gioca tutt'altra partita. 

 

Quella fra gli alti papaveri di Teheran (e i loro emissari in loco) che premono sulla coach della campionessa per farla desistere (Zar Amir, vista nel folgorante “Holy Spider”, qui anche regista con Guy Nattiv). E il gran teatro dei mondiali, con manovre diplomatiche, voltafaccia, ricatti non solo morali, minacce di ritorsioni anche sui familiari. Il tutto a Tbilisi, Georgia, dove il film è stato girato in segreto, a due ore da Tel Aviv e altrettante da Teheran.

 

Dimenticate le metafore e le allegorie di una volta. Tutto il cinema iraniano, simbolicamente, si è ormai tolto l'hijab per guardare in faccia la realtà. Che poi qui lo faccia nei modi di un thriller classico (e ineccepibile), si capisce. Con buoni e cattivi di questa portata, il racconto epico è una scelta naturale.

 

TATAMI
di Guy Nattiv e Zar Amir, Usa-Georgia, 105’