I condannati che aspettano di essere giustiziati nel “bunker”di Livingston, in Texas, raccontano la loro asfissia infinita attraverso un progetto fotografico. Che mostra come essere in vita non significhi vivere

«Bisogna che il mondo sappia che i condannati a morte in Texas vengono trattati come animali o anche molto peggio. Con il beneplacito dei cittadini, ai quali viene detto che qui ci sono solo delle belve assetate di sangue. Ma i peggiori sono quelli dell’amministrazione, con i loro trucchi per farci sentire ancora più miserabili e disperati. Ai loro occhi siamo solo rifiuti della società». Scrive così Charles Momou, detto Chucky, condannato a morte, in una lettera spedita dal carcere di Livingston in Texas: cioè lo Stato con il più alto numero di esecuzioni capitali non solo in America, ma in tutto il mondo democratico occidentale. Una missiva che affiora da quell’avamposto dove finisce la vita e in cui la crudeltà delle condizioni di detenzione – così come viene raccontata – è tale che il confine tra l’essere «morti viventi» e alla fine morire davvero sembra sottilissimo.

 

Quello di Chucky è solo uno dei quasi 600 casi che Luisa Menazzi Moretti, fotografa di grande esperienza, ha approfondito, partendo dalle lettere che i detenuti nel braccio della morte scrivono alle famiglie o anche a persone sconosciute. Un lavoro di ricerca e verifica accurato che Menazzi Moretti affida in esclusiva a L’Espresso e che è sfociato in un progetto fotografico: “Ten Years and Eighty-Seven Days”, menzione speciale all’International Photography Awards. Una sorta di antologia visiva in cui non ci sono i volti dei condannati né la loro vita ritratta dentro le celle, ma le immagini che quelle parole hanno evocato nell’animo dell’artista.

 

Il titolo “Ten Years and Eighty-Seven Days”, ovvero dieci anni e ottantasette giorni, indica il tempo medio che un condannato passa in carcere prima della sua esecuzione in Texas, dove, dal 1982 (anno in cui è stata introdotta l’iniezione letale) a oggi, sono state giustiziate ben 587 persone. Ma lo Stato americano oltre a questo «vanta anche un altro triste primato», spiega Menazzi Moretti. Che in Texas ha vissuto a lungo e quel posto lo conosce bene: «Dal momento in cui i condannati entrano nel braccio della morte, diventano carne morta».

 

 

La situazione dei detenuti texani è notevolmente peggiorata dal 1999, quando, dopo un tentativo di fuga, sono stati trasferiti dal carcere di Huntsville al “bunker” di Livingston. Da allora vivono in totale isolamento, in un tempo sospeso che dura in media più di tremila e settecento giorni, talvolta addirittura più di 20 anni. Privi di ogni contatto sociale, i condannati hanno solo la compagnia di una radiolina, di qualche libro e degli atti giudiziari che li riguardano. Ma soprattutto sono richiusi in una cella di due metri per tre senza sbarre alla porta. «Ho visto molte persone perdere la testa dopo che ci siamo trasferiti», sono le parole contenute nella lettera di Ernest Wills: «Le potevi sentire urlare. C’erano due tizi che hanno spalmato nelle loro celle le feci dappertutto. E sono certo che per molti ragazzi che avevano un leggero disturbo mentale, arrivati nel braccio della morte, il problema si sia aggravato. Non si sarebbero sentiti seppelliti, se avessero avuto le sbarre al posto di massicce porte di acciaio. Il solo fatto di essere lì dentro con una porta e dei muri massicci, ti fa sentire dentro una tomba. Una persona deve tenere impegnata la propria mente. Se non la usa, la perde».

 

Arlnod Prieto, un altro condannato, nel 2015 scrive infatti: «Nei giorni peggiori, i libri sono un grande aiuto. Sai, se avessi ancora la possibilità di continuare la mia istruzione, lo farei e andrei il più lontano possibile. Ma dal momento che l’istruzione fa parte della riabilitazione, noi non siamo titolati a un lusso simile qui nel braccio della morte nel Texas. Se ho paura del mio futuro? Il mio futuro consiste in sette giorni da quando avrò finito di scrivere questa lettera». Un tempo interminabile in una condizione di asfissia che diventa un incubo per molti detenuti ossessionati dai loro fantasmi, soprattutto di notte: il momento più duro, che rende inevitabile il ricorso a sonniferi e a tranquillanti.

 

In caso di buona condotta, poi, i condannati possono uscire a turno in cortile, una o due volte a settimana. Ma anche all’aperto il loro spazio, il loro «diritto a un pezzo di cielo», è confinato in una gabbia. «Andiamo fuori dove siamo messi dentro a una cella più grande, divisa in due… I muri dei cortili esterni sono più o meno alti 7 o 8 metri», continua Prieto. «Il soffitto ha delle sbarre per permettere alla pioggia e al sole di passare. Sono poche, però, le ore del giorno nelle quali il sole passa attraverso. Quindi, se sei lì fuori quando il sole non si trova nell’angolatura giusta nel cielo, ti troverai all’ombra creata dalle pareti».

 

Una delle foto di “Ten Years and Eighty-Seven Days”, il lavoro di Luisa Menazzi Moretti, menzione speciale all’International Photography Awards

 

Il più delle volte si finisce la propria vita – si legge in molte delle lettere – senza avere più rivisto la luce. In una definitiva privazione sensoriale. Le manette, la maglia metallica e il vetro rinforzato nei pochi incontri con le persone amate sono una gabbia nella gabbia, lacci che i condannati sono obbligati a tenere anche poco prima della loro esecuzione. Il 18 agosto del 2002 Martin Draughton si è sposato con un matrimonio celebrato per procura. Alla sposa è stato fatto sapere che «l’anello al dito dello sposo potrà essere infilato solo dopo l’esecuzione». «Guardo nei tuoi occhi e mi sento estasiato dal tuo amore e dalla tua bellezza, dimenticando tutto quello che avevo programmato di dire. Ma ancora cosa resta da dire? Non possiamo toccarci? Guardia, solo un piccolo tocco? Sto di nuovo sognando. È soltanto una porta, una rete metallica, un vetro rinforzato, eppure è un mondo tra noi due», scrive Draughton alla sua amata.

 

Parole d’amore miste a disperazione. Quella di Draughton e quella di tanti, troppi carcerati affidati al braccio della morte. Spesso «figli del ghetto» – tra i 18 e i 27 anni – che non hanno conosciuto alternativa e che non sempre sono colpevoli «oltre ogni ragionevole dubbio». Ma la cui vita è distrutta per sempre. E le loro parole hanno attraversato il tempo per poi rivivere grazie al lavoro fotografico di Menazzi Moretti in diciassette immagini che interpretano la condizione dei condannati in quel limbo che assomiglia a un inferno. «Il mio intento – racconta Menazzi Moretti – non è mai stato quello di fare un reportage, piuttosto di trasporre le storie e i testi con cui i condannati descrivono le loro emozioni e i loro tormenti, per stimolare una profonda riflessione sulla crudeltà e la disumanità della pena capitale». “Ten Years and Eighty-Seven days” ha viaggiato: Berlino, Siena, Treviso, Brescia e Firenze, ospite della Rtk Human Rights Italia. Nella “Casa dei diritti umani” voluta dalla famiglia Kennedy all’interno delle Murate, un ex carcere che ora è simbolo di inclusione, scambio sociale e culturale. Il Gran Ducato di Toscana, tra l’altro, fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.

 

Una stanza adibita all’esecuzione tramite iniezione letale

 

«Te lo sto dicendo, io sono pronto. Ho vissuto nell’inferno, sono pronto ad andare da qualche altra parte. Non so cosa mi aspetti, ma la certezza che ho è che, se sarà possibile, combatterò per voi», Micheal Sharp, Texas, 1997.