Nel nostro Paese aumentano i suicidi e le discriminazioni che colpiscono anche chi non si conforma alle norme di genere. A L'Espresso parla Teresa Manes, mamma di Andrea "il ragazzo dai pantaloni rosa" morto nel 2013: «Gli insulti sono insulti e non libertà di espressione»

Tredici anni e un taglio alle vene per cancellare insulti, chiacchiere, offese. È morto così Gabriele nel novembre dello scorso anno. Ha aspettato che i genitori uscissero di casa. Al rientro era troppo tardi. Lui cosa pensava, cosa provava? Non si sa, nessuna relazione potrà mai raccontarlo. I carabinieri hanno sequestrato tutti i dispositivi elettronici per provare a capire. David Foster Wallace nel raccontare il fenomeno del suicidio lo paragonò a una persona intrappolata che si butta da un palazzo in fiamme. «Morire per una caduta, rispetto alle fiamme alle tue spalle, è il meno terribile dei terrori». Gridare «non farlo» è sempre inutile per chi vive il farlo come un sollievo.

 

Nelle chat con i compagni Gabriele era liquidato più volte con la parola «gay», sferrata come un insulto. Ma erano davvero queste, solo queste, le fiamme alle sue spalle? Non è una colpa non vedere, non sentire l’inferno in cui vive un ragazzino che poi sorride a tavola, va bene a scuola, mangia e dorme senza difficoltà apparente. Succede – sono mondi impermeabili – di non capire, pur con le migliori intenzioni. Solo che in Italia, negli ultimi due anni, si è registrato un aumento del 75 per cento dei casi di tentato suicidio: la fascia di età più coinvolta è quella dei giovanissimi, che registra la media di un tentato suicidio al giorno. I dati sono dell’Osservatorio suicidi della fondazione Brf dedicata alla prevenzione del suicidio.

 

Raccontano una storia antica, silenziosa, insondabile che dentro questo tempo però cresce assieme a una generazione che confonde il mondo reale con lo schermo dei telefoni e non ha argini. Gli studi dicono che sono le persone lgbt, spesso già provate da difficilissime traversate controvento a contemplare l’oblio del suicidio. Come spiega Salvatore Ioverno, docente del dipartimento di Scienze della Formazione di Roma Tre, autore assieme a Roberto Baiocco di una delle prime ricerche sull’ideazione suicidaria nella comunità arcobaleno in Italia: «Possiamo parlare sicuramente di minority stress, cioè l’insieme di stress aggiuntivi delle persone lgbt che può portare spesso a episodi di malessere. Quell’insieme di discriminazione, vittimizzazione, e mancanza di supporto sociale che possono essere alla base di pensieri depressivi e suicidari. La teoria psicologica interpersonale ci dice che il suicidio è il risultato di tre componenti: un senso di appartenenza sociale ridotto, il percepirsi come peso per gli altri, l’acquisizione della capacità di farsi del male. Secondo il nostro studio “the Free project”, condotto su adolescenti lgbt in Italia e in altri 13 Paesi europei, a fare da argine all’ideazione suicidaria negli adolescenti possono essere gli insegnanti. Essere inclusivi, parlare in classe di questioni lgbt positivamente assieme a un’educazione sessuale aperta possono diminuire questo fenomeno. Sono pratiche, che portano a una percezione di sicurezza per gli studenti, a bassi livelli di vittimizzazione e a una bassa interiorizzazione di stigma».

 

 

Il numero dei suicidi riusciti o tentati contempla anche ragazzi ancora alla ricerca di un’identità che vengono bullizzati semplicemente per la loro espressione di genere, cioè adolescenti, soprattutto maschi, che non si atteggiano secondo i canoni previsti dall’ordine di genere costituito: «Subiscono un bullismo simile a quello omotransfobico dove il comune oggetto delle derisioni, delle aggressioni, delle violenze sono gli atteggiamenti che rimandano a una generale non conformità di genere», spiega Guido Giovanardi, psicologo clinico e ricercatore presso il dipartimento di Psicologia dinamica clinica e Salute dell’Università Sapienza di Roma. «Dalle ricerche svolte negli ultimi anni sappiamo che all’interno delle famiglie, dei contesti scolastici, dei gruppi di pari, i comportamenti di genere non conforme di bambini e adolescenti maschi sono sistematicamente oggetto di discriminazione (anche atteggiamenti maschili nelle bambine e nelle adolescenti possono essere oggetto di bullismo, ma in misura minore). È l’ordine costituito dell’eteronormatività e dell’eterosessismo, alla base dell’omofobia, della transfobia e della misoginia: un ordine in cui i due generi sono definiti da tratti precisi (maschi aggressivi e predatori, femmine vulnerabili e passive) e relazioni codificate in un registro tradizionalista, sempre identico a sé stesso. Chi esce da questa norma è considerato spesso «socialmente inferiore» e oggetto, ovunque nel mondo, di aggressioni e derisioni». I “bulli” sono ossessionati dalle variabili fuori controllo. L’aggressione nei confronti di chi rompe gli stereotipi diventa una formazione di genere. 

 

È quello che è successo ad Andrea, noto alle cronache come «il ragazzo dai pantaloni rosa», morto suicida a 15 anni nel 2012 vittima di un bullismo subìto da studenti e professori. Di lui non abbiamo conosciuto l’orientamento sessuale ma solo la predilezione di colori e atteggiamenti, considerati prerogativa delle femmine (smaltarsi le unghie, indossare pantaloni rosa). I media  e in parte anche le associazioni lgbt, lo trasformarono post mortem in un ragazzo «gay» deformando la sua identità. Segno che anche l’informazione disorientata può usare le parole in modo rozzo, svuotandole di senso. Sono passati undici anni, il tempo di mezzo di una vita. La sua tragedia aprì una finestra sul bullismo in Italia. 

 

Sua madre, Teresa Manes, insegnante, da anni contrasta il fenomeno nelle scuole incontrando migliaia di studenti. Un impegno che l’ha portata fino al Quirinale dove, il 27 dicembre 2021, il presidente Sergio Mattarella le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere. La storia di Andrea ha ispirato anche una pellicola attualmente in produzione, diretta dalla regista Margherita Ferri, prodotta da Eagle Pictures e Weekend Films e sceneggiata da Roberto Proia sotto l’occhio vigile della stessa Manes: «È l’educazione quello che serve ancora oggi – racconta a L’Espresso – rispetto a dieci anni fa molto è cambiato, ma si fa ancora fatica. Qualcuno vede in queste forme di violenza un momento formativo di crescita: “Ti fai le ossa”, continuano a dire. In realtà te le spezzi. Nella violenza verbale serpeggiano offese che richiamano il concetto di diversità, alzano muri. Una cultura difficile da scardinare».

 

Dal 2012 a oggi il mondo ha preso la rincorsa, tra fluidità di genere e nuovi diritti, i giovani possono guardare modelli diversificati. Manes cita Sangiovanni, i Maneskin: «Hanno sdoganato molti tabù. Poi arrivano Pio e Amedeo e invitano a farsi una risata se ti chiamano “frocio”. Mio figlio rideva. Due giorni dopo si è impiccato. Il politicamente corretto non c’entra. Gli insulti sono insulti e non libertà di espressione. Parole che rovinano la vita, dimentichiamo che un ragazzo di quattordici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode. Servirebbe allargare lo sguardo, vedere ricchezza nella fragilità. C’è ancora tanto lavoro da fare».