Il commento
ll vecchio vizio dei politici: giustizialisti con gli avversari, garantisti con gli amici
La questione morale torna sulla scena pubblica con gli scandali da Genova a Bari. Ma la presunzione d'innocenza dovrebbe valere per tutti e non dipendere da chi è coinvolto nelle inchieste
Un maremoto politico sta sconvolgendo la Liguria e sta portando la classe politica locale di governo sul «fronte del porto». Oltre che agli arresti domiciliari, a partire dal governatore-dominus della Regione, Giovanni Toti. Si tratta di un altro capitolo del recente riaffacciarsi sulla scena pubblica «in grande (o, per meglio dire, miserevole) stile» della questione morale, da un capo all’altro del Paese. Ciascuna delle vicende di corruzione e ognuno degli scandali del malaffare fa, in qualche modo, storia a sé e, al medesimo tempo, lascia trapelare degli elementi costanti e ricorrenti. E così vale anche per le inchieste giudiziarie che vanno dalla Genova di destracentro alla Bari (e Puglia) di sinistracentro. Dal Mar Ligure all’Adriatico – e al resto d’Italia – pare essere divenuta comune la percezione da parte di leader e partiti che la deroga all’etica nell’attività politica e, giustappunto, la questione morale non spostino più molti voti.
Tanto da “riassorbire” e modificare di segno pure il cleavage inedito scaturito durante gli anni Novanta di Tangentopoli, quello che sovrapponeva la destra al garantismo e la sinistra al giustizialismo, mentre negli ultimi tempi il primo si adotta in maniera “ontologica” per i compagni di partito e gli amici e il secondo viene immancabilmente brandito contro gli avversari. Insomma, da un capo all’altro dell’arco parlamentare si applica invariabilmente il garantismo-giustizialismo (senza soluzione di continuità) contra e ad personam a seconda di chi viene coinvolto. Come si dice sempre – e come è giusto che sia sotto il profilo dell’amministrazione della giustizia e del garantismo, che costituisce un principio di civiltà giuridica – deve darsi la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Per tutti indistintamente, e non separando in maniera sistematica, come sta appunto avvenendo, gli amici dai nemici.
E poi c’è il piano dell’opportunità politica che sta disvelando un sistema di intrecci strettissimi fra le classi dirigenti elettive e un certo mondo del business che fa affari con le concessioni (e le pressioni) pubbliche. Al punto che, come suggerisce qualche osservatore, si potrebbe pure ipotizzare la pista del regolamento di conti interno al destracentro, considerando che l’iperpersonalizzato «sistema Toti» (supportato dalla Lega) non consentiva agli altri di “toccare palla”.
E qui emergono due ulteriori dimensioni, una “antropologica” e una strutturale riguardante il funzionamento del sistema dei partiti e la democrazia. La prima rimanda a questo complesso di benefit, utilità e facilitazioni regalate dagli uomini d’affari alle interfacce politiche – dai massaggi ai soggiorni di lusso e ai crediti di gioco al casinò, e chi più ne ha più ne metta – raccontandoci come ad avere trionfato in maniera definitiva sia stata l’egemonia sottoculturale della «bella vita» (detto senza moralismo) discendente dal berlusconismo.
Il secondo aspetto coincide con il tema gigantesco, e finora deliberatamente ignorato, del finanziamento della democrazia, abolito a livello pubblico sotto l’onda del populismo fingendo che non vi sarebbe stato alcun problema e la trasparenza avrebbe dettato le regole. Una finzione, l’ennesima. E sarebbe, dunque, proprio il caso di tornare a discuterne senza infingimenti né ipocrisie.