Viaggio tra gli under 25
Perché per i giovani è così difficile credere in Dio
Fedeli in calo, atei in crescita, educazione cattolica sempre meno incisiva. Ma la spiritualità resiste. Un gruppo di adolescenti riflette su amore, riti e religione
"Piccoli atei crescono”, diceva il titolo di un saggio di qualche anno fa sul rapporto (debole) fra i giovani italiani e la fede. I dati più recenti dicono – forse un po’ al ribasso – che solo 7 under 30 su cento ritengono essenziale un legame con il trascendente. Ventotto su cento si definiscono atei. L’educazione cattolica incide, ma sempre più blandamente. Parlare di Dio genera una certa diffidenza, se non qualche imbarazzo. Non è detto però che dallo spazio della quotidianità sia sparita la spiritualità: la fede, o la fiducia, in un generico e confortante “oltre”, il dialogo muto con gli assenti, un colloquio molto personale con l’invisibile. Che copre un arco molto ampio: dalla superstizione all’animismo alla preghiera forse troppo interessata e cucita su misura, fuori dal formulario di rito.
D’altra parte, come osserva l’antropologo Franco La Cecla nel recente “Convincere Dio” (Einaudi), «non conosciamo alcuna società contemporanea a noi, che sia in Oriente o tra i popoli nativi dell’Occidente o tra le culture del Sud o del Grande Nord, che non abbia un tipo di pratica per comunicare con l’invisibile». Ma sappiamo più pregare? La Cecla indica le interferenze di un «materialismo ansioso» come una spinta contraria ai processi «mentali, sensoriali, emozionali» più profondi. Quelli che la preghiera mette in atto o di cui raccoglie l’esito: ma richiede un abbandono, o un allenamento speciale. Lo sa Paolo Valoppi, scrittore poco più che trentenne, all’esordio con “Mio padre avrà la vita eterna ma mia madre non ci crede” (Feltrinelli). Un romanzo che racconta la sua infanzia accanto a un padre testimone di Geova; e si apre con una opportunissima epigrafe di Natalia Ginzburg: «Chi non crede, tenga conto che ci sono persone alle quali il mondo senza Dio sembra atroce». In perfetto equilibrio fra ironia e tenerezza Valoppi racconta sé stesso bambino alle prese con una comunità che in parecchi considerano fatta di «fanatici, settari, austeri, quelli-che-andavano-a-citofonare-alla-gente-il-sabato-mattina-per-parlare-della-verità-sulla-fine-del-mondo»; interroga il proprio stesso imbarazzo e sottotraccia ragiona sul confine labile e complicatissimo fra fede e libertà, tra l’ostinata ragione e quei momenti strani in cui l’unica cosa da fare sembra «rimanere al buio, scoppiare a piangere e farmi una lunga chiacchierata con Geova: “Geova Dio, ti prego di…” che mi aveva accompagnato a lungo».
«Quando mi chiedono se credo in Dio – conclude Valoppi – non riesco a rispondere di no. Dico sempre che in qualcosa credo, ma non so cosa». Forse questa risposta funzionerebbe per moltissimi, e non solo venti-trentenni. Più difficile è trovare la risposta netta: sì, credo. E trovarla fra persone che non hanno ancora compiuto vent’anni. Mi rivolgo a un gruppo che si chiama “Gang sotto le stelle”: si incontrano in una parrocchia romana, quartiere Trieste, tutti i mercoledì sera. Hanno fatto la cresima in piena pandemia, poi hanno scelto di proseguire. Guardano film e li commentano insieme, fanno viaggi e campi estivi, attività di volontariato.
Che cosa significa per te credere? Per me, dice Carlotta, diciottenne, «significa coltivare amore per me stessa e per gli altri, motivo per cui non ho paura o imbarazzo nel dirlo davanti ai miei coetanei, perché dovrei vergognarmi di una cosa così bella». Risponde così prima ancora che le domandi, per l’appunto, se si senta “in minoranza”. Emilia, al riguardo, non ha incertezze: «Io frequento il liceo e più volte mi è capitato di confrontarmi su questo tema con loro e con altri miei amici. La maggior parte dei miei conoscenti non crede, ma è disposta, nei momenti di confronto, a farlo in modo costruttivo e senza giudicare o attaccare l’altra persona per le proprie convinzioni. Dall’altra parte io rispetto i miei coetanei non credenti e non li giudico». Sa di essere tra pochi, pensa che la fede sia qualcosa di personale «che è bello condividere ma non per forza deve essere fatto. In tanti momenti mi sono sentita parte di un gruppo con i miei stessi sentimenti religiosi e questo mi ha dato tanta forza». Un esempio? «I campi estivi. Ma l’esempio più lampante credo sia stata la Giornata mondiale della gioventù a Lisbona, dove ho conosciuto ragazzi da tutte le parti del mondo accomunati dalla stessa fede». Insisto con Emilia: credere che cosa significa? «Penso che credere significhi affidarsi a qualcosa, a qualcuno, non solo nei momenti brutti ma anche in quelli belli. Ritengo che sapere che c’è qualcuno che ti ama in modo incondizionato e non ti giudica ti dà forza. Non sempre c’è fede, ma sono consapevole che quando c’è è bellissimo».
Pietro, diciannove anni, aggiunge che le scelte della sua vita non sono condizionate dalla sua fede, ma credere lo aiuta ad affrontarle nel modo giusto. Benedetta dice che credere la aiuta a essere più ottimista, «perché so che in un modo o nell’altro le situazioni complicate si risolvono sempre». Eugenia racconta che nella quotidianità è difficile credere e «ricordarsi di amare»: «Tuttavia, ci sono quei pochi elementi in ogni giornata che aiutano sempre: l’amore di alcune persone, anche quelle che ti regalano sorrisi casuali e inaspettati… Parte importante è poi l’abitudine alla ritualità: andare a messa la domenica o a catechismo durante la settimana anche quando non ne ho voglia al cento per cento, perché so che, nella maggior parte dei casi, una volta uscita da lì sarò felice di esserci andata. E mi aiuta a ricordarmi perché mi piace definirmi cristiana». Forse Eugenia non lo sa, ma la sua risposta ha qualche consonanza con quella che Martin Scorsese dà ad Antonio Spadaro nei bellissimi “Dialoghi sulla fede” (La Nave di Teseo): «Non sono – ammette Scorsese – un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità… Ma l’idea della risurrezione, l’idea dell’incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore… quella è la chiave. I sacramenti, se riesci ad accostarti a loro, a farne esperienza, ti aiutano a stare vicino a Dio. Ora, mi rendo conto che questo suscita una domanda: sono un cattolico praticante? Se con ciò s’intende: “sei uno che va in chiesa?”, la risposta è no. Tuttavia fin da ragazzo mi sono convinto che la pratica non è qualcosa che avviene soltanto in un edificio consacrato… La pratica è qualcosa che accade fuori, sempre. Praticare, davvero, è fare qualsiasi cosa tu faccia, di buono o di cattivo, e riflettere su questo. Questa è la sfida». Mr Scorsese, anche la diciottenne Demetra sottoscriverebbe: «Nella vita quotidiana riconoscere la presenza di un Dio infinitamente buono nelle persone intorno a me mi aiuta ad essere in generale più grata per tutti gli incontri che mi capitano».
Edoardo, ventiquattro anni, sostiene che le difficoltà «sono un forte motore della fede» e che lo avvicinano a Dio «non in modo ruffiano, ma come fonte di forza e di coraggio. Poi le difficoltà del mondo in cui viviamo: guerre, odio, discriminazione mi portano verso quel messaggio d’amore, pace e uguaglianza in cui credo. Infine, ma non per importanza, ogni volta che sono testimone di qualcosa di bello e inaspettato, credo che dentro ci sia la volontà di Dio e questo mi aiuta molto». Anni fa, scrissi un romanzo – “Una storia quasi solo d’amore” – in cui una trentenne credente parlava più o meno in questi termini; e faceva innamorare un ventenne “incredulo”: lui convinto che per certificare la follia di ogni fede non ci fosse bisogno di uno psichiatra; lei che gli rinfaccia le sue certezze. Lo vedi che c’entra sempre la paura?, domanda lui. No, risponde lei, c’entra qualcosa che ti rasserena, ed è in te. Domande, domande! Quando hai smesso, insiste lei, di farti le domande fondamentali?
Ecco allora l’ultima – quella quasi impossibile. La pongo alla “Gang sotto le stelle”. Se doveste definire Dio, con quali parole lo fareste? «Immenso, comprensivo, amorevole», «un padre che non ti abbandona mai, anche quando ti capita di “litigare” con lui», «misterioso, infinito, onnipresente», «rifugio, sole, serenità», «buono, paziente, travolgente, raro». Vince Pietro: «Lo definirei come un compagno di classe pronto a suggerirti se ne avessi il bisogno».
4. Fine - Con quest’ultima tappa si conclude Under 25, il viaggio di Paolo Di Paolo per L’Espresso attraverso le emozioni dei ragazzi, sulla scia di Tondelli