Che significa nasicchiare? E circumrapato? Paola Italia scava da anni nella frenetica fantasia dell'autore del Pasticciaccio da sempre in lotta con le parole

Che vuole mai dire “nasicchiare”? E “predappiofezzo” in qual concione si rammenta sillabato? Dove è inscritto “priapare”? “Circumrapato” come si traduce in italiano corrente?

 

Quattro esempi tratti dal “Gaddabolario” a cura di Paola Italia (Carocci editore). Divertente etichetta per un esclusivo dizionarietto che chiosa duecentodiciannove lemmi dell’ingegner Carlo Emilio Gadda (1893-1973), autore cult dalla frenetica fantasia linguistica e bisognoso di provvidi sussidi per cavarne le gambe e intenderne appieno il dettato.

 

Paola Italia seleziona un imponente gruppo di testi per Adelphi – siamo al titolo ventidue – insieme a Giorgio Pinotti e Claudio Vela. Regista perfetta di un’impresa epica, che approfondisce e amplifica i cinque volumi delle “Opere complete” organizzati da Dante Isella (1988-1993). Non si contano i collaboratori coinvolti in un cantiere che dura da anni ed è destinato a sconfinare nell’eterno. Paola Italia vi traffica con invidiabile destrezza da non meno di un trentennio.

 

Beh! «Nasicchiare» è formazione denominale composta da “naso” e il suffisso “-icchiare” e definisce – vi spiega Alice Borali – un mugugnar nasale, per lo più tipico del malevolo gossip femminile, a conferma della radicate  misoginia di Gadda. “Predappiofezzo” designa Mussolini ed è ottenuto appiccicando il nome del paese d’origine del Duce al copricapo delle violente squadracce: Luca Lo Marco lo rileva dalla feroce invettiva “Eros e Priapo” (1967). “Circumrapato” sta più o meno per rapato alla fratesca ed è attributo degno di figure profetiche quali Carlo Magno, chiarisce ineccepibile Mariarosa Bricchi, curatrice della definitiva (2023) “I viaggi e la morte”.

 

Si tratta di sapidi assaggi per salutare il “Gadda” a cura di Paola Italia (pp. 509, € 43) appena uscito dall’officina di Carocci: una raccolta di venti saggi, dieci per singoli volumi, dieci su questioni generali. Un monumento della “filologia d’autore” assurta finalmente ad autonoma disciplina accademica.

 

Gadda è un paradiso per gli adepti, ostico a quanti desiderino avvicinarlo: due tribù ben separate. L’insistenza sul calcolato artificio del vocabolario non deve far prevalere nella (ri)lettura del Gran Lombardo una curiosità da enigmistiche trouvailles. Introducendo la sistematica summa si delinea una sorta di bipolarismo tra un Gadda che, anche per eredità familiari, ha o ambisce a incarnare una postura eroico-patriottica allineata a un “modello Cesare” e un Gadda che impersona un modello opposto, segnato da paure, debolezze, delusioni: una Gaddamachia tra il dover essere e l’essere, una «battaglia con sé stesso che durerà tutta la vita».

 

Anche i risultati faticosamente raggiunti in formati diversi, cucendo o limando quadernetti e appunti, abbozzi e frammenti, esplicitano questa tensione implacabile. Per un verso Gadda non esita a dichiararsi uno Zoluzzo ottocentesco che ha bisogno di osservare e descrivere fatti da ritrarre e da comprendere scientificamente, per l’altro sa che i dati son da sovrastare perché non rimangano inerti e insensati reperti. Positivista, dunque, e freudiano prima di Freud. Anche se si tenta di inserirlo in una linea modernista Proust-Gadda-Joyce egli si staglia come unicum nel panorama della letteratura europea a cavallo di due secoli. Gianfranco Contini lo incluse nel pentolone dell’espressionismo, ma non riscosse un plauso generale. L’esordio solariano  è ripercorso da Monica Marchi ed è principalmente per il sostegno di Bonaventura Tecchi, conosciuto nella baracca 15c di Celle-Lager, che Gadda compose per la stampa una raccolta di racconti eterogenei modulati secondo «tutti i registri stilistici che da lì in poi frequenterà». Esce nel 1931 “La Madonna dei filosofi”. Poco dopo, nel ’34, “Il castello di Udine” e l’Ingegnere abbandona gli attrezzi della professione esercitata di malavoglia, e prende il via. Il periodo fiorentino sarà tra le fasi più feconde: «Il mio tempo felice l’ho vissuto a Firenze, intorno agli anni Trenta, quando Alessandro Bonsanti ed Eugenio Montale ebbero la bontà di incoraggiarmi a scrivere». Le ossessioni non si dissolvono, e nemmeno i sogni. La morte del fratello Enrico nel cielo di Asiago (23 aprile 1918) aveva venato di inconsolabile dolore un entusiasmo che da patriottico si farà nazionalistico. L’ambigua seduzione del movimento fascista lo ingannò. A suo dire, nel ’34 ne comprese la lurida falsità. La morte della madre Adele con la quale aveva avuto sempre un cattivo rapporto accentuò la congenita melanconia. A Roma coglierà un tardivo trionfo con il non finito “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957): era convinto che un romanzo,  soprattutto se mostrava le parvenze di un giallo, non doveva chiudersi. “La cognizione del dolore” (cinque rimaneggiate edizioni einaudiane, dal 1963 al 1971) lo proiettò su scala internazionale. Negli ultimi anni, assunto in Rai, è incaricato, lui sfrenato plurilinguista, di buttar giù a uso dei redattori del terzo programma le norme da osservare per i testi radiofonici: quasi un contrappasso. Al punto dieci si suggerisce di «evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un lessico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili». Un doveroso imperativo o l’affermazione di un incolmabile divario tra scrivere e parlare? Tra «voracità inquisitoria» e ligia comunicazione? Un giorno aveva confidato: «Sono un uomo solo attorniato da nemici, che combatte ogni giorno una battaglia disperata con le parole». La Gaddamachia proseguiva.