Lavoro povero
In Italia più della metà dei lavoratori part time non lo ha scelto. Lo subisce
Sono soprattutto donne, stranieri e giovani a dover ripiegare sul lavoro a tempo parziale. Lo denuncia il rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità, che evidenzia come questa formula non sia affatto un modo per conciliare vita privata e occupazione: «Dobbiamo invertire la rotta»
«È stata una scelta obbligatoria. Nel nostro ambiente in molte ci ritroviamo a lavorare dopo essere state ferme per 10-15 anni per aver cresciuto i figli. Avevo chiesto un full-time, ma non mi è stato dato. Mi dicono che sono già fortunata ad avere quattro ore», racconta Ginevra, nome di fantasia, una delle lavoratrici intervistate dal Forum Disuguaglianze e Diversità per la realizzazione del report “Il part-time in Italia non è una scelta”: «Quattro ore di lavoro al giorno, spezzate dalla pausa pranzo, sono una presa in giro. Guadagno meno di 700 euro al mese per 9 mesi l’anno. È lavoro povero».
Come spiega Giorgia Amato, ricercatrice del Forum Disuguaglianze e Diversità che ha collaborato alla stesura del rapporto, in Italia su 4 milioni di lavoratori part-time più della metà, il 56 per cento, lavora a tempo parziale non per scelta ma per mancanza di alternative: sono per la maggior parte donne, stranieri, e giovani. «Facendo una comparazione tra il nostro Paese e gli altri membri Ue si vede che il part-time involontario è un fenomeno tipicamente italiano. Mentre nel resto dell’Unione, i lavoratori occupati a tempo parziale non per scelta sono intorno al 20 per cento, in Italia superano la metà del totale degli occupati part-time. A rendere possibile la situazione di oggi è stata la flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro che ha preso piede soprattutto dagli anni ’90. E poi, in tempi più recenti, con il Jobs act che ha introdotto le clausole elastiche del lavoro supplementare e straordinario».
Così oggi il part time, da tipologia di contratto pensata per conciliare meglio la vita privata con quella lavorativa diventa, di frequente, una gabbia da cui il lavoratore non riesce più a uscire. Perché alle imprese conviene più un dipendente a tempo parziale da utilizzare in base alle proprie esigenze che un occupato full time. Dai dati che il rapporto evidenza è possibile anche dedurre alcune caratteristiche comuni alla maggior parte delle imprese che fanno un utilizzo strutturale del personale a tempo parziale (cioè quelle in cui oltre i due terzi, 70 per cento, dei dipendenti risulta inquadrata con orario ridotto): sono microaziende (con meno di cinque datti) o imprese con più di 250 lavoratori. Hanno maggiore probabilità di operare nel sud del Paese e nelle Isole, fanno spesso ricorso all’uso di contratti atipici. Prediligono i lavoratori scarsamente professionalizzati. E sono aziende a cui non piace innovare, poco propense a utilizzare strumenti di flessibilità a supporto dei lavoratori, a favorire il lavoro agile, la formazione dei dipendenti. «Sono imprese che cercano di essere competitive perché puntano al ribasso dei salari, non sulla qualità dei prodotti e del lavoro», conclude Amato.
«Sono aziende che hanno poca cura per le condizioni di vita dei lavoratori», spiega Susanna Camusso, senatrice del Partito democratico, ex segretaria generale della Cgil: «A osservare il fenomeno del part-time da vicino ci si rende conto che è erroneamente associato a un’idea volontaria visto che spesso non è né transitorio né scelto, come invece dovrebbe. E capita che sia anche un modo per le imprese di eludere tasse e contributi perché viene usato per avere la massima flessibilità dal lavoratore». Secondo Camusso, il primo passo importante per porre dei paletti al fenomeno del part-time involontario è appunto individuarlo, metterlo in luce e dare voce alle persone che sono costrette a subirlo: «Bisogna cambiare le norme perché se è vero che sono necessari lavoratori a tempo parziale allora bisogna fare in modo che la retribuzione che percepiscono sia sufficiente a garantire loro un’esistenza dignitosa e a raccogliere i contributi necessari per la pensione. E che i lavoratori abbiamo possibilità di scegliere».
Per farlo, come si legge nel report, sono tre le possibili aree di intervento: La contrattazione, affinché il part-time sia associato solo a contratti a tempo indeterminato e in modo che i contributi previdenziali di chi lavora a tempo parziale costino di più; i disincentivi, cioè L’inserimento di un sistema di denuncia per i lavoratori che non hanno possibilità di scelta e la costruzione, invece, di politiche di incentivazione per la trasformazione dei contratti da part-time a full time. E, infine, l’aumento dei controlli, di ispettori che monitorino l’effettiva applicazione delle clausole concordate nella contrattazione.