Medio oriente in fiamme
Il premio Pulitzer Nathan Thrall: «Ho visto i miei concittadini festeggiare per dei bambini morti: siamo al disumano»
Ebreo statunitense, lo scrittore appena premiato con il prestigioso riconoscimento vive a Gerusalemme. Dove la strage su uno scuolabus pieno di bimbi palestinesi è stata accolta con un'esultanza da giovani israeliani di destra. Lo ha raccontato in un libro. Perché anche se non vede futuro, è convinto che raccontare le storie delle persone scuota le coscienze dalla crudeltà
Il livello è stato superato. «Stiamo assistendo a una deumanizzazione di una scala e di una profondità mai viste prima, ed è questo che mi fa disperare per il futuro di Israele e Palestina. E il peggio deve ancora venire». Nathan Thrall non mostra alcuna speranza, mentre la guerra su Gaza supera i sei mesi e i 34 mila palestinesi uccisi, dopo che il 7 ottobre 2023 quasi 1.200 israeliani sono stati vittime dell’attacco terroristico di Hamas e del jihad islamico.
Thrall parla da Gerusalemme, dove ha scelto di vivere da molti anni, lui statunitense, ebreo, tra i pochi a conoscere palmo a palmo la terra, sino al Sud di Gaza. «Era come entrare in un altro mondo». Parla da una città che definisce il «cuore pulsante della questione israelo-palestinese». Per la precisione, dal quartiere di Musrara, a ridosso delle antiche mura di Solimano che ancora circondano la Città vecchia, e poggiato sulla Linea Verde. Il suo è un nome che a lungo è stato conosciuto solo da chi studia la questione israelo-palestinese. Direttore per dieci anni della sezione dell’International Crisis Group che si è occupata di Israele e Palestina, Thrall ha firmato i rapporti più importanti e acuti del think tank.
Le sue analisi sono state usate nelle stanze in cui si decidono le sorti del mondo, dalle cancellerie europee e Usa sino all’Onu. Eppure, il suo nome è assurto a una notorietà più diffusa quando ha dato alle stampe un libro sulla storia di un uomo, Abed Salama, palestinese, e della sua vita fatta di soprusi, umiliazioni, tentativi di barcamenarsi nelle maglie dell’occupazione israeliana. Una vita in cui la morte del piccolo figlio, Milad, arriva come l’ultimo, insopportabile schiaffo.
Tutto vero ciò che Thrall descrive nel suo “Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme”, pubblicato ora per Neri Pozza, ma, nell’edizione americana, uscito il 3 ottobre, proprio alla vigilia degli attentati. Sono bastati tre mesi perché il libro conquistasse la palma del libro dell’anno decretata dalle più importanti testate statunitensi. Le ragioni del successo stanno proprio nella storia – ordinaria e straordinaria allo stesso tempo – di Abed Salama, uomo e padre, e di un bambino che voleva andare alla gita ed è morto nell’autobus che ha preso fuoco dopo essere andato fuori strada.
Nessun attacco, nessuna violenza da parte di israeliani e palestinesi. Ma la violenza che si esercita su un pezzo di terra – il Territorio palestinese occupato, in questo caso la Cisgiordania e Gerusalemme est – quella sì che è all’origine di tutto. «Se dico che hanno ucciso un bambino, per me, è ancora più crudele di quanto sia crudele parlare di genocidio», sostiene Thrall.
Salama attende di capire dov’è stato portato suo figlio, in quale ospedale a cui non è possibile arrivare perché, appunto, nella terra attorno al suo paese di residenza, Anata, alcuni luoghi sono inaccessibili a seconda del documento d’identità. Anata, appena fuori da Gerusalemme e strappato alla città dal muro di separazione costruito dagli israeliani, è un luogo sconosciuto ai più. Non lo è, invece, alle cronache quotidiane e nascoste degli ultimi anni. Cronache di sangue tracimate nella letteratura e nella non-fiction narrata.
Prima del testo di Thrall, Colum McCann aveva fatto di Anata uno dei centri del suo monumentale “Apeirogon”: lì era stata uccisa la figlia di uno dei protagonisti, il palestinese Bassam Aramin, che con l’israeliano Rami Elhanan è il costruttore di una fratellanza nata e maturata sul lutto, sulla perdita delle rispettive figlie per mano del nemico.
Una biografia, una saggistica narrata come un romanzo è nella migliore tradizione dello storytelling palestinese personificato nell’antico mestiere dello "hakawati". È, forse, lo strumento necessario per rendere di nuovo umano ciò che non lo è più. «Era una perdita di tempo cercare di influenzare i responsabili politici e diplomatici che ho incontrato per anni», dice Thrall, «perché anche quando si convincevano che occorresse fare qualcosa non cambiava nulla. Ho cercato, allora, di raggiungere un pubblico molto più ampio. Il conflitto non è destinato a finire presto e, perché ci sia un vero cambiamento, è necessario un cambiamento massiccio nell’opinione pubblica che consenta ai diplomatici e ai responsabili politici di comportarsi in modo diverso».
L’obiettivo: «Raggiungere persone a cui non importa nulla di Israele e Palestina, persone che in America o in Europa non saprebbero nemmeno indicare Gaza su una mappa, ma che sentono che c’è un padre che cerca suo figlio, c’è una tragedia che li trascina in una storia umana e attraversandola imparano a conoscere Israele e Palestina». Thrall, che ha spesso sottolineato la solitudine di un ebreo profondamente critico verso Israele, descrive la situazione come «un sistema di sottomissione etnica, puro e semplice, di cui siamo complici». Un’autentica «catastrofe morale».
La deumanizzazione, comunque, è fatta di diversi stadi. «E la forma più comune è quella di ignorare, ricevere le informazioni e cancellarle. Sorseggiare un espresso in un caffè di Tel Aviv, mentre a trenta minuti di distanza i tuoi parenti fanno irruzione nelle case in Cisgiordania, portando via i bambini ai loro genitori, trattenendo le persone in detenzione amministrativa senza accuse né processo», spiega Thrall: «Questo è il livello base in cui molti milioni di israeliani possono vivere la loro vita senza pensare all’occupazione ed è la chiave della sua longevità. Il 7 ottobre è stato così scioccante per gli israeliani perché ha invaso le loro vite nel modo più brutale, più inaspettato, e in luoghi inattesi. Un attacco ai coloni poteva essere messo in conto, ma vederlo accadere così, su questa scala, nei kibbutzim è stato scioccante».
E poi il secondo livello, «la deumanizzazione che si verifica in modo più brutale, quella che è parte dell’epilogo del mio libro. Mostro come ci siano stati giovani israeliani che quella mattina esultavano per la morte dei bambini dell’asilo. Avevano ricevuto la notizia che bambini innocenti, palestinesi, erano bruciati su uno scuolabus. E lo festeggiavano senza pseudonimi, con i loro nomi. Con orgoglio, senza paura delle conseguenze. Questo livello di deumanizzazione non è rappresentativo della maggior parte degli israeliani, ma esiste, è una forza in crescita, molto di più oggi che prima del 7 ottobre».
E sottolinea Thrall: «Gli israeliani che celebrano la morte di bambini palestinesi alla fine del mio libro appartengono alla destra politica. Ma la deumanizzazione non è questione di sinistra contro destra. Il politico più popolare in Israele in questo momento, il centrista ex capo di stato maggiore delle forze armate, Benny Gantz, in campagna elettorale nel 2019 si vantava di quante persone l’esercito aveva ucciso sotto la sua supervisione nella guerra di Gaza del 2014. Quando Israele ha iniziato a punire collettivamente la popolazione di Gaza, privandola di cibo, acqua, carburante ed elettricità, il presidente di centrosinistra di Israele, ex capo del partito laburista, Isaac Herzog, ha dichiarato che “un’intera nazione” è responsabile del 7 ottobre».
Che cos’è, dunque, annullare il senso dell’umano oggi? «La deumanizzazione è il modo in cui Israele, nei primi mesi della sua rappresaglia, ha ucciso decine di migliaia di persone a fronte delle sue circa 1.200 vittime. La deumanizzazione è il modo in cui Israele ha autorizzato attacchi aerei che prevedevano l’uccisione di 300 passanti innocenti per eliminare un solo militante. È così che Israele si è affidato all’Ia per generare liste per i suoi assassinii mirati a Gaza. E la deumanizzazione è il modo in cui il governo ha attuato la politica dell’affamare più di due milioni di civili».