J è una 13enne della provincia di Roma, le viene tolta la sua bambina una settimana dopo il parto. E contro la sua volontà, viene dichiarata adottabile. Ma il suo non è un caso isolato

Quando J arriva all’ospedale ha 13 anni.  La fanno partorire a porte aperte, come se un evento tanto intimo riguardasse il mondo intero. «Chiudete», urla al personale medico e per qualche minuto la stanza torna ad essere uno spazio semiprotetto. Oltre alla sorella e alla madre, però, ci sono altri spettatori. Sono due ma hanno sei occhi, i loro e quelli dei cellulari che tengono in mano per filmare la scena: sono la dirigente e un’operatrice della casa famiglia in cui J ha trascorso parte della sua gravidanza. Stanno lì in piedi a documentare, uno scatto dopo l’altro, la nascita di Isabel. Era il 2 maggio del 2023.

 

La bambina è stata concepita durante una fuga d’amore con un ragazzo più grande. Quando la famiglia l’ha scoperto la gravidanza era già al quinto mese: «Un bambino è sempre una benedizione», hanno commentato con gioia i familiari di J, sinti evangelici. Eppure, deve esserci stato qualcosa che non ha convinto il personale sanitario che ha deciso di allertare i servizi sociali. Ma che cosa (e perché), J e i suoi familiari non l’hanno ancora capito.

 

Come racconta Teresa, la madre di J, «un giorno siamo state contattate dagli assistenti sociali. Ci hanno offerto una casa anche se noi l’avevamo già. E poi siamo state sottoposte praticamente a un interrogatorio». Non molto tempo dopo, J è stata portata in un istituto dove ha terminato la gravidanza. «In un posto in cui le limitavano il cibo e non poteva mangiare quello che le andava. Da sola, con noi poteva parlare pochissimo», spiega la sorella Elison: «J sapeva di voler crescere sua figlia, la giudice del Tribunale dei minori le aveva promesso che l’avrebbe aiutata».

 

Ma subito dopo il parto le cose sono cambiate in fretta: Isabel è stata dichiarata adottabile. E una settimana dopo la nascita è stata allontanata da sua madre. «Che in quanto minore di 16 anni non ha potuto riconoscere la figlia. Solitamente, però, in queste situazioni si procede con il riconoscimento tardivo. La storia di Isabel, invece, è stata fatta passare come un caso di abbandono. Ma non lo è. Hanno ignorato la volontà della madre e le condizioni della nostra famiglia, avremmo potuto tenere noi la bambina», spiegano ancora Teresa e Elison che non si sono date per vinte fino a quando non hanno trovato un legale disposto a aiutarle.

 

«Grazie all'avvocato abbiamo potuto fare appello a quella sentenza, mai notificata, che ha decretato l’adottabilità di J.  La seduta si terrà il 18 giugno, quando la Corte dovrà prendere una decisione», spiega Elison che aveva anche provato, senza riuscirci, a chiedere Isabel in affido: «Chiediamo di poter rivedere la bambina e l’annullamento della decisione del Tribunale. Ma soprattutto vogliamo riportare Isabel a casa, vogliamo che torni nella sua famiglia di origine così da poter crescere accanto a J». Che nel frattempo, a quanto raccontano i familiari, ha vissuto un periodo terribile all’interno della casa famiglia: all’inizio lasciata anche senza il supporto psicologico, sola, discriminata e bullizzata dagli altri piccoli ospiti, fino a quando non ha deciso di scappare.

 

«Una volta che i minori rom vengono dichiarati adottabili, le loro storie vengono fagocitate all’interno della società, divengono mute», si legge tra le pagine di “Mia madre era rom”,  l’unica ricerca che esiste sulle adozioni dei minori rom in condizioni di emergenza abitativa del Lazio, condotta dell’Associazione 21 luglio oltre dieci anni fa, ma ancora attuale. Secondo il rapporto, un minore rom ha dalle 30 alle 40 possibilità in più di essere dichiarato adottabile rispetto ad uno che non lo è. Tanto che tra il 2006 e il 2012, su 1033 minori totali considerati adottabili nel Lazio, l'11 per cento era rom.  Ma le discriminazioni continuano anche dopo:  mentre un bambino non rom ha il 71 per cento di possibilità che si avvii il procedimento di adottabilità dopo che i servizi sociali fanno partire la segnalazione, per i rom la percentuale arriva al 90 per cento. 

 

«La maternità per le donne rom equivale a essere più ricattabili», commenta Maria Consuelo Abdel Hafiz, rom, dottoranda in Migrazioni, sistemi sanitari europei e tutela dei diritti fondamentali all’Università di Catanzaro, «perché invece di essere supportate - visto che in molti casi, soprattutto nel sud Italia, vivono in condizioni povertà estrema e fragilità - finiscono in un vortice interminabile di colloqui. Vengono minacciate costantemente, convivono con il terrore continuo che gli vengano portati via i figli».

 

La storia di J e Isabel è solo uno degli esempi. «Un caso eclatante ma certamente non l’unico. Purtroppo però, non abbiamo dati aggiornati, che sarebbero, invece, necessari per far comprendere a quante più persone possibili l’ampiezza del fenomeno, quanto spesso i pregiudizi offuschino il giudizio del personale sanitario e anche dei giudici», spiega Dijana Pavlovic portavoce dell’associazione culturale Kethane, che lotta per infrangere il muro discriminazioni che, da secoli, separa le comunità romanì dal mondo fuori.