La difesa di Kiev finora ha resistito ai russi, ma l’intera regione est è in allerta. Come già accaduto in altre città simbolo della guerra, anche qui si profila lo scontro all’ultimo sangue

A Kharkiv ogni giorno si aggiungono nuove macerie, mentre verso la frontiera i soldati sono tornati nelle foreste. Il nuovo fronte finora ha resistito all’impatto russo, ma non c’è un quadrante della regione orientale che non sia in stato di allerta. Chi non è nelle prime linee è impegnato a costruire fortificazioni, a scavare trincee e a creare postazioni di tiro nascoste. Quella che il presidente Volodymyr Zelensky ha definito «stabilizzazione» del fronte è costata tantissimo ai soldati, che venivano già da mesi d’inferno in inferiorità numerica e senza munizioni sufficienti. Ora, di nuovo, si torna ai turni di ore con le vanghe e le asce.

 

A ridosso del fronte nord-orientale le strade si snodano tra fittissime foreste di pini alti ed esili.  Sotto a questi alberi giovani, gli uomini si aggirano come ombre, tutti magri e bianchi per la polvere. Le ruspe che poco più a Sud preparano le trincee qui non possono lavorare e allora si fa tutto a mano. Siamo a Est di Kharkiv, nella regione omonima, il confine russo è a circa 50 chilometri e nel mezzo dei campi il fiume Severskij Donec si gonfia e crea una barriera naturale che gli ucraini non vogliono perdere e che i russi vogliono aggirare. C’è un solo ponte e passa per un villaggio che si chiama Staryi Saltiv. Il ponte è già stato distrutto da un bombardamento e ora si passa su un pontone costruito dal genio militare che scricchiola e beccheggia sull’acqua. Più a Nord, nei pressi di Rubizhne, il fiume disegna un’ansa poco profonda che sia oggi sia due anni fa i generali di Mosca hanno puntato come possibile guado per accerchiare i difensori dall’altra parte. Finora non si sono neanche avvicinati, ma Rubizhne è bombardata costantemente.

 

Al ponte di Staryi Saltiv si arriva tramite una strada quasi sempre dritta che per lunghi tratti è circondata da campi pianeggianti a perdita d’occhio. Questo paesaggio in alcuni suscita le stesse sensazioni della talassofobia, la paura del mare aperto, soprattutto quando la strada è leggermente in salita e l’orizzonte è tutto piatto. Senza ripari, si ha il timore, da un momento all’altro, di poter essere colpiti da un missile o da un drone. Cosa che ai militari accade quotidianamente. Le ruote sull’asfalto rovinato dai mezzi cingolati emettono un clangore che è simile al ronzio delle eliche e gli occhi sono sempre puntati verso l’alto per controllare che non si tratti davvero di un drone. A quel punto che fare? Si esce dall’auto, come è stato spiegato, e si mostrano i simboli sul giubbotto antiproiettili: «Sei un giornalista, non dovrebbero spararti», dicono i militari con un malcelato sarcasmo che provoca sempre ilarità tra i presenti. E se dall’altro lato, ai comandi del drone, ci fossero dei ragazzini cresciuti a videogiochi e computer (come molti dei dronisti ucraini che abbiamo conosciuto) indifferenti alla vita altrui e ai simboli che s’indossano in quel momento?

 

Superato il ponte, il paesaggio cambia completamente; si risale verso Nord costeggiando il fiume e la situazione peggiora a ogni chilometro, però la strada è riparata. Da un’altura si vede una densa coltre di fumo bianco che a poco a poco copre l’orizzonte. Avvicinandosi, il fumo diventa grigio e poi nero, come quello che si alza dai punti d’impatto dei missili più grossi. Invece sono i soldati ucraini che stanno bruciando il sottobosco. Alcuni tagliano gli alberi, altri costruiscono i camminamenti e i ripari nelle trincee, i più sfortunati stanno a guardia del fuoco con vecchie vanghe e sudano anche dagli occhi. Chi ha già lavorato è seduto sui terrapieni ai lati della carreggiata e non guarda neanche chi lo sta fotografando. Una domanda sovrasta le altre: per quanto ancora? Tutta questa organizzazione serve ad approntare posizioni che possano tenere per settimane, forse per mesi, come è già accaduto nel Donetsk. Per terminare la battaglia di Bakhmut ci sono voluti mesi, a Chasiv Yar ancora si combatte, ogni nuova roccaforte assume i caratteri di uno scontro all’ultimo sangue. E il capo ucraino del Comando orientale ha già definito Vovchansk «la nuova Bakhmut».

 

Kostia, seduto in un furgone militare all’ombra, racconta che viene da Chasiv Yar. «La mia unità fa parte delle forze speciali, abbiamo dato rinforzo ai reparti di stanza lì negli ultimi due mesi, ora ci hanno spostato su questa linea». Come fa a ricominciare ogni volta? «Si deve fare per forza così; se molliamo, è tutto finito». Non torna a casa sua, nei Carpazi, da prima di Natale: «Dovevo fare tutte le Feste, ma il 22 dicembre mi hanno richiamato e sono dovuto tornare nell’Est». Ma non avere il cambio da sei mesi non lo fa imbestialire? Sorride appena senza rispondere nulla. Tuttavia, è onesto quando riconosce che «a Vovchansk è durissima, ce la siamo vista brutta». Lo chiamano alla radio: c’è allerta droni e devono spostare tutti i mezzi alla svelta. Indica degli alberi bassi dalle grosse chiome e ci fa parcheggiare lì per un po’.

 

 

Quando i cieli sono liberi si continua verso Nord; a Bugaivka, sotto un grosso pino, è parcheggiata un’ambulanza Iveco con la scritta in italiano. Ci si ferma e dal mezzo scendono Andriy e Andriy (ridono anche loro quando si presentano con lo stesso nome), uno ha due premolari d’oro che si vedono ogni volta che sorride. Si occupano delle evacuazioni dei militari feriti. Ce ne sono molti? «Mmm, abbastanza», risponde Andriy con i denti d’oro. «I primi giorni si lavorava senza sosta», dice rivivendo quei momenti l’altro Andriy, «ma ora siamo di più». Più ambulanze o più militari? «Più tutto, la situazione è migliore ora». Esce da una «casa sicura» qualcuno in pantaloni mimetici e senza giacca, li richiama. E i due si congedano. Bugaivka dà l’impressione di un villaggio fantasma, le case sono evidentemente occupate solo da militari che nascondono mezzi e pezzi d’artiglieria nei garage o sotto le reti mimetiche tra gli alberi. Qui spesso vengono mandati i reparti che poi daranno il cambio alle prime linee e sempre qui si trova uno dei primi «punti di stabilizzazione», ovvero un presidio medico nei pressi del fronte dove i feriti più gravi vengono portati prima di affrontare il viaggio verso un ospedale, sempre se l’ufficiale medico di turno non decide che è già troppo tardi. Le parole di Andriy confermano quanto trapelato negli ultimi giorni dall’Agenzia nazionale di investigazione ucraina (Dbr), che ha formalmente accusato una brigata di stanza qui prima dell’ultima offensiva russa, la 125°, di «non aver organizzato adeguatamente la difesa delle posizioni al confine dell’oblast di Kharkiv» e di avere di conseguenza «portato alla perdita di posizioni, equipaggiamento militare e personale delle unità». L’accusa più grave, finora, è quella di «abbandono di posizione» che porterà a processo oltre 30 tra ufficiali e comandanti ucraini.

 

Intanto a Kharkiv continuano ad arrivare militari; anche la città va fortificata, nonostante al momento il problema principale siano i missili russi. Decine di attacchi che stanno colpendo a tappeto il vasto centro urbano e provocando molti morti tra i civili, come nella tipografia di Osnovyansk o al centro commerciale Epicenter. In città gli allarmi hanno ricominciato a fare paura e – nonostante la maggioranza dei residenti non creda più che a breve i militari russi marceranno verso Kharkiv o tenteranno di cingerla d’assedio, come molti temevano due settimane fa – la situazione peggiora di giorno in giorno. E secondo Zelensky il pericolo non è scampato: «La Russia sta preparando una nuova avanzata e ammassa truppe a Nord-Ovest di Kharkiv». Gli analisti sono cauti, ma ciò che è certo è che la battaglia per Kharkiv è appena all’inizio.