Allievo di George Enescu, amico di Zubin Mehta e appassionato di Borges, il grande violinista ha creato una Fondazione per i nuovi talenti: “I giovani lontani dalla classica? Conoscono solo altre musiche, non c’è par condicio”

Al travolgente “trillo del diavolo” di Giuseppe Tartini con il suo Guarneri del Gesù siamo abituati, e anche alle sue intemerate un po’ passatiste contro pop e rock in nome della superiorità della musica classica. I seguaci più attenti, poi, conoscono la sua passione per la letteratura, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda e Fëdor Dostoevskij. Per il resto una chiacchierata con Uto Ughi è una terra piena di sorprese, una passeggiata nella Storia con un faro acceso sul Novecento. A ottant’anni tondi, il grande violinista non risparmia energie per un nuovo progetto: ha dato vita alla Fondazione intitolata a suo nome, che promuove festival musicali e corsi di perfezionamento per giovani talenti, borse di studio, concorsi. Il 10 maggio ha eseguito le Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi con l’Orchestra “I Filarmonici di Roma”, a Roma, poi ha organizzato una masterclass musicale gratuita per gli allievi del conservatorio di Santa Cecilia. Una svolta all’insegna delle nuove generazioni. «L’Italia è depositaria di un patrimonio musicale unico al mondo, ma ha forti anomalie. È il Paese in Europa con il maggior numero di conservatori, circa 80, ma è anche quello con il minor numero di orchestre», sintetizza il violinista, che vive a Roma ma si reca appena può nelle sue case a Venezia e Busto Arsizio, vicino a Varese, dove un tempo abitava con i genitori.

 

Maestro Ughi, partiamo dalle lacune del sistema educativo nazionale. Di chi sono le responsabilità?
«Finora la musica è stata molto trascurata nelle scuole, penso invece che sia un dono e deve essere accessibile a tutti, soprattutto ai ragazzi. L’Italia, infatti, è una miniera ricca di capolavori musicali che potrebbero dare gioia a milioni di giovani. Sono molto contento perché ho conosciuto il ministro dell’Istruzione (Giuseppe Valditara, ndr), che ha accolto con entusiasmo l’invito di dare maggiore importanza all’educazione musicale. Lui vorrebbe addirittura creare un’orchestra del ministero, con la mia collaborazione, e colmare il divario con altri Paesi come il Giappone e il Venezuela. Qui José Antonio Abreu (attivista e musicista, ideatore di El Sistema, fondazione per la promozione sociale attraverso la musica, ndr) ha fatto cose meravigliose per i giovani: andava nei quartieri più fatiscenti per insegnare la musica come forma di riscatto».

 

Con Abreu vi siete conosciuti?
«Certo. Mi invitava in Venezuela e io andavo a sentire le sue performance e quelle del violinista Gustavo Dudamel. Sono stato lì diverse volte, ci sono orchestre di bambini che suonano benissimo Bach e “Le quattro stagioni” di Vivaldi».

 

In Italia c’è un paradosso: troppi conservatori e poche orchestre.
«Ogni Regione dovrebbe avere un’orchestra a ritmo pieno. Un ragazzo che si diploma al conservatorio dove va a lavorare? Quasi sempre all’estero, in Italia non ci sono sbocchi di lavoro».

 

Un tempo era diverso. Quali sono stati i suoi riferimenti musicali?
«Sono stato allievo del grande George Enescu, ho studiato a Vienna. Mi piaceva assorbire le culture di vari Paesi».

 

Ha un ricordo personale di Enescu?
«Purtroppo l’ho conosciuto che ero molto giovane. Ho studiato un paio d’anni con lui, prima che morisse. Ho un ricordo indelebile, è stato uno dei più importanti musicisti del Novecento. Grandissimo violinista e pianista, direttore d’orchestra, compositore».

 

Cosa avete in comune?
«Ho avuto la fortuna di studiare con lui Bach, il concerto di Mendelssohn, i concerti di Mozart. Era geniale e generoso: a Parigi andavo a lezione da lui due o tre ore, senza limiti di tempo, non voleva neanche essere pagato da mio padre. Poi mi sono diplomato al conservatorio di Ginevra con Corrado Romano, allievo di Carl Flesch».

 

Quando ha capito che la musica sarebbe stata la sua vita?
«La musica per me è stato un elemento naturale, come l’aria che respiravo o il cibo che mangiavo. I miei erano appassionati di musica, mio padre era amico di una spalla dell’orchestra della Scala sotto Arturo Toscanini. Invitavano a casa musicisti, il sabato eseguivano quartetti. Non c’era la tv, ovviamente. Era come nel libro “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig, attraverso le finestre a Vienna e nelle altre città austriache si sentivano i quartetti di Beethoven e di Mozart, i trii di Haydn. E poi andavo ai concerti: quando ho sentito Heifetz (Jascha, violinista russo naturalizzato statunitense, ndr) al Teatro Nuovo, a Milano, fu per me una folgorazione».

 

Quali sono i suoi strumenti?
«Suono uno Stradivari del 1701, appartenuto a Rodolphe Kreutzer, il celebre violinista a cui Beethoven dedicò una sonata, e il Guarneri del Gesú “Rose” del 1744, già proprietà di Arthur Grumiaux».

 

Che caratteristiche hanno?
«Sono molto diversi. Quando avevo 17 anni mi comprarono il Kreutzer, una voce molto luminosa. Se si può fare un paragone tra pittura e suono, Stradivari è un Raffaello, un Tiziano; il Guarneri invece è un Caravaggio, perfetto per il concerto per violino di Robert Schumann: ha un suono misterioso, notturno, lunare. Lo Stradivari, adattissimo a Vivaldi e Mozart, è apollineo, Guarneri dionisiaco. E ancora, il suono dello Stradivari è congeniale per determinati autori, meno per altri. I Guarneri hanno un suono dal timbro scuro, drammatico, struggente, che ricorda i dipinti di Rembrandt».

 

Lei ha lavorato con i più grandi direttori, da Zubin Mehta a Wolfgang Sawallisch, e i suoi interessi toccano anche la letteratura. Cosa legge oggi?
«Alcuni autori vanno riletti costantemente, così come nella musica. Non si fa Bach una volta sola, ma si ristudia, si riascolta. E così per la letteratura: Dostoevskij, Goethe, Shakespeare, vanno riletti nell’arco della vita. Sono una lezione di vita, cultura, spiritualità. Durante le mie tournée leggevo la letteratura dei Paesi che mi capitava di attraversare».

 

Ha conosciuto Borges?
«Sì, a Buenos Aires, a casa di amici che frequentavano il Teatro Colón e venivano ai miei concerti. Una volta avevo espresso il desiderio di contattare Borges, per me uno dei grandi geni letterari del Novecento, anche se non gli hanno mai dato un Nobel. “Forse pensano di avermelo già dato”, disse una volta ironicamente. Porto nel cuore capolavori come “Storia dell’eternità”, “La biblioteca di Babele”, i suoi racconti. Aveva una capacità immaginifica straordinaria, sapeva intuire il senso metafisico dell’umanità. Mi parlò di uno scrittore italiano a suo avviso trascurato dalla critica e dal mondo della cultura italiana, Giovanni Papini. Secondo lui era stato uno dei grandi scrittori del Novecento, come Dino Buzzati».

 

In un’intervista al quotidiano La Verità lei ha sostenuto che la sinistra in passato ha messo al bando alcune importanti figure di intellettuali. Chi in particolare?
«Giovanni Papini, appunto. Siccome non era di sinistra è stato un po’ messo da parte, come del resto Dino Buzzati. Dico forse, non voglio polemizzare con la sinistra».

 

C’è da dire che Papini fu tra i firmatari del “Manifesto della razza” (1938), non un fatto secondario, anche se in seguito ne prese le distanze. Comunque si parla di un tempo lontano, oggi affiorano problemi diversi: i giovani, ad esempio, spesso entrano in connessione con mondi musicali lontani dalla musica classica.
«Perché conoscono solo questo, non c’è par condicio di informazione. Se il 99 per cento della musica è pop e rock, loro tendono a quello, è normale. E invece bisogna far conoscere loro i tesori della nostra musica».

 

E invece all’ultimo G7 il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha regalato un cd dei Måneskin al segretario di Stato americano Antony Blinken.
«Purtroppo ho un rapporto molto “leggero” con la musica leggera, non per snobismo ma per interesse spirituale. Non ho niente di personale contro i Måneskin, ma per me non è musica. È teatro».