I contatti diplomatici, i sopralluoghi ai siti, le missioni del dirigente Teti: dopo 125 anni, la famiglia Agnelli/Elkann rischia di ritrovarsi con un vero rivale in casa. E dunque studia le contromosse

Ve lo diciamo subito con un inconfessabile sentimento di sconforto: le politiche italiane con le aziende cinesi non determinano le relazioni occidentali con le aziende cinesi. Semmai, è vero il contrario. «Perché siete così sinceri con me, che cosa vi ho fatto di male, io?» (Tommaso, Massimo Troisi). Come scrivono quelli che non sanno legare un periodo semplice a un periodo composto, adesso procediamo con ordine (in effetti, farlo con disordine sarebbe offensivo nei confronti del lettore).

Per la prima volta dal 1899, un secolo intero più un quarto di secolo, messa così fa più impressione, la famiglia Agnelli oggi Elkann ha un rapporto conflittuale col governo/potere. La differenza col 1899 è che adesso le soluzioni ai conflitti di ogni tipo sono globali, non locali. Non sovraniste, per intenderci. Dunque da mezzo anno circa Adolfo Urso, il ministro per le Imprese e per il già obsoleto «Made in Italy», fa scivolare, sornione, nei discorsi che in Italia (o in Italy, fate voi) c’è bisogno di un secondo produttore di automobili, certamente di generazione non generata, squarci di futuro, ibride avanzate, elettriche in purezza. E anche cinesi. Perché no cinesi. Vengano i cinesi. L’auspicio di Urso s’è fatto concreto. Allora ci si divide nelle cronache, e nel retro delle cronache, in due squadre in lotta: è quasi fatta, macché fatta. Vediamo a che punto siamo con qualche dettaglio inedito. E procediamo con ordine, certo.

La non più dominante America e la non più emergente Cina si scambiano rialzi di dazi. Ciascuna per bloccare le esportazioni dell’altra. Al solito, fra le due, c’è l’Europa. Per non essere invasa da automobili cinesi altamente competitive e con prezzi stracciati, pure l’Europa, presto, dovrà rivedere i dazi oltre il venticinque per cento. L’unica maniera per fissare i dazi e però non isolarsi è ribaltare la prospettiva: non importare automobili, ma fabbriche cinesi. Il governo di Pechino non vuole partecipare al mercato in Europa/Occidente, lo vuole conquistare, almeno con una quota abbastanza consistente e per farlo deve aprire stabilimenti in Europa/Occidente. Il presidente Xi Jinping ha chiuso in Ungheria il suo viaggio europeo per sperimentare la porta d’ingresso in Europa e benedire la prima fabbrica di automobili cinesi: entro un paio di anni la Build Your Dreams (Byd), la multinazionale con la tecnologia più sviluppata e integrata, inonderà l’Occidente con 300.000 esemplari di macchine elettriche. E se l’Ungheria vi sembra una Europa periferica e indisponente, lo stesso accordo è stato chiuso in Spagna con la Chery e potrebbe replicarsi in Polonia e qui vicino in Francia. La lettura è più chiara: non è la Cina ad avere un disperato bisogno di Italia, ma è l’Italia che ha bisogno di crearsi una alternativa a Stellantis. Una alternativa immediata.

Il gruppo del presidente John Elkann è da tempo in graduale ritirata mentre si punzecchia quotidianamente col governo di Giorgia Meloni. (Non a caso lo scorso novembre la copertina de L’Espresso raffigurava Elkann sotto la scritta «Era Fiat»). Questo è lo scenario in vigore. Allora perché i bisogni italiani e le ambizioni cinesi ancora non si incastrano? Risponde una fonte che segue lo sviluppo di questi incastri: «Se vi sfugge siete tonti: in centoventicinque anni – scandisce – non è mai successo». Cioè la Fiat, fin dal primo vagito, ha sempre usufruito di condizioni favorevoli. A dir poco favorevoli. Coccole. Adesso che viene accusata di voler ridurre ancora di più la sua presenza in Italia, ridurre il numero già ridotto di lavoratori, anziché essere trattenuta con appelli disperati ben farciti con melodramma e incentivi italiani, viene strattonata ai margini, fuori, ciao. Su scala europea, non italiana (non ci si attribuisce un valore eccessivo), il gruppo francoitaliano Stellantis ha reagito con un investimento di 1,5 miliardi in Leapmotor, specializzata in automobili elettriche, fondata neanche un decennio fa, quotata alla Borsa di Hong Kong capitalizza circa 40 miliardi di euro. La rete vendita di Stellantis, è l’annuncio più recente, offrirà ai clienti i modelli cinesi di Leapmotor: un veicolo all’anno per i prossimi tre anni. E non va esclusa l’ipotesi, che ovviamente ha il sapore intenso di una ripicca, che Leapmotor produca automobili in Europa. In Polonia. Non in Italia né in Francia. Invece per Mirafori è stata promessa una linea di Fiat 500. Vanno definiti i sussidi, teme il governo.

Pausa. In questa ridda di progetti e dispetti, manca il fattore geopolitico: l’incedere del Dragone con le automobili elettriche non è pericoloso per la sicurezza occidentale? Ovunque i governi hanno scritto cataste di norme per limitare la presenza cinese in settori delicati per la sicurezza nazionale, per esempio con le connessioni digitali e l’informatica. Le automobili sono il giusto compromesso. E lo sono, per entrambi, ancora di più dopo il naufragio in Europa del piano per la cosiddetta nuova Via della Seta. L’Italia aderì col governo di Giuseppe Conte I e si è sfilata col governo di Giorgia Meloni. Nell’atto di nascita del governo in carica c’era proprio la rinuncia al contestato partenariato con la Cina. E fra i motivi della caduta estiva del Conte I, Ferragosto ’19, c’erano anche i rapporti con i cinesi e le aziende cinesi delle telecomunicazioni. Era il periodo della messa al bando americana di Huawei e Zte Corporation. Quel periodo non s’è chiuso, ma l’attenzione è rivolta altrove. La stretta di mano, ai margini di un bilaterale economico, fra il ministro Urso e il dirigente Hu Kun è assai fresca (30 aprile 2024). Hu Kun è presidente della Camera di Commercio di Pechino in Italia nonché rappresentante in Italia di Zte Corporation. Quel giorno Urso ha incontrato anche l’ambasciatore Jia Guide: «Il governo ha migliorato gli strumenti per attrarre investitori esteri in Italia e siamo aperti anche a investimenti cinesi, a partire dalle automobili», ha affermato il ministro. Mentre i diplomatici di Pechino hanno utilizzato il classico comunicato anodino: «Le parti hanno scambiato vedute sulla promozione della cooperazione commerciale fra Cina e Italia».

Qualcosa di significativo, apprende L’Espresso, è accaduto in quei giorni. Con maggiore cautela. Riservatezza. Nessuna ampollosa comunicazione. La settimana successiva Jia Guide ha ospitato per un colloquio Amedeo Teti, appena rientrato da un viaggio in Cina. È il capo dipartimento al ministero di Urso e, in particolare, è coordinatore della struttura di attrazione e sblocco degli investimenti esteri. I negoziati con i cinesi passano per i suoi uffici: è Teti che va in ambasciata, è Teti che va a Pechino, è Teti che organizza i sopralluoghi in Italia (già dallo scorso anno), è Teti che gestisce i contratti di sviluppo per liberare i finanziamenti. Questa è una fase di snodo. I cinesi hanno visitato in gran segreto diversi siti in Italia. Ci sono approfondimenti da studiare, non piani industriali da esaminare. In sintesi. Cinque aziende di automobili sono teoricamente interessate a produrre in Italia, due sono più attive, una è in vantaggio: è Dongfeng. Al momento i veicoli di Dongfeng verranno distribuiti in Italia da Df srl dell’imprenditore Bruno Mafrici («dei suoi affari e dei suoi guai» ha scritto di recente il quotidiano Domani). Il suo socio di minoranza col dieci per cento è Paolo Berlusconi, attraverso la holding Pbf. Non è chiaro il ruolo di Mafrici nell’eventuale stabilimento italiano di Dongfeng, di certo era presente al ministero a una riunione formale come membro della delegazione aziendale cinese.

Il governo vorrebbe accogliere i cinesi entro l’anno o comunque brindare a un patto in pochi mesi. Il miraggio/l’obiettivo è una fabbrica da 100.000 automobili e circa 1.500 dipendenti più l’indotto. Gli apocalittici sostengono che sia complesso convertire stabilimenti in disuso da tempo e creare attorno una cintura industriale capace di fornire componenti di tecnologia moderna. Gli integrati confidano nel doppio bisogno italiano e cinese che, in qualche modo, possa essere soddisfatto. Altro che una fabbrica, il governo ne vuole di più. Lo spazio non manca. Lo spazio liberato da Stellantis. È sbagliato sfogliare bignamini di strategia industriale, finanza pubblica e geopolitica economica per interpretare questa vicenda che coinvolge Stellantis, l’Italia e la Cina. Vanno soppesate le intenzioni e i rancori e soprattutto va tenuto a mente che dal 1899 la Fiat non ha avuto mai rivali in casa. È questa la spinta più grossa per il governo Meloni. È questo l’ostacolo più grosso per il governo Meloni.