Sebbene ci siano già state trentanove vittime e la norma che avrebbe alzato le tasse ai cittadini sia stata ritirata, le manifestazioni non si fermano. A rischio c'è la stabilità del Paese più filoccidentale dell’area. Ma per la generazione Z una trasformazione è necessaria

Il Kenya, il Paese più stabile e filoccidentale dell’Africa orientale che ogni anno è meta di decine di migliaia di turisti italiani, brucia travolto dagli scontri di piazza che chiedono le dimissioni del presidente William Ruto. Un malcontento serpeggiante e colpevolmente ignorato dagli osservatori internazionali che può far saltare gli equilibri di tutta una regione africana. Promesse elettorali non mantenute, un’economia in grave crisi, la disoccupazione giovanile alle stelle e una corruzione diffusa sono stati gli elementi deflagranti. 

 

Tutto era cominciato giorni prima degli scontri che hanno causato 39 vittime, stando ai dati della Commissione nazionale keniana per i Diritti umani, mentre gli slogan Rage and Courage e il reboante hashtag #RutoMustGo non hanno mai smesso di rimbalzare sui social, nelle radio e nelle bocche della Generazione Z, i nati dopo il 1997, vera anima della protesta. Decine di giovani si sono riversati nel Business District di Nairobi, una città spaventata dalla violenza della polizia e dalla possibilità, fermata dalla Corte Costituzionale, di vedere l’esercito occupare le strade snaturando la storia del Kenya che non ha mai permesso ai militari di prendere il potere.

 

«Vogliono sfruttare la paura della gente per fermare la nostra protesta – racconta John Kwenya, un politico eletto all’assemblea di Nairobi – la violenza è stata organizzata per screditare la manifestazione. Ruto ha detto che c’erano dei terroristi fra i manifestanti, ma io dico che invece c’erano degli scagnozzi (goons in lingua originale, ndr) mandati dalla polizia per giustificare la vergognosa reazione che ha portato alla morte di ben 39 persone». Il politico keniano non ritiene assolutamente sufficiente l’aver ritirato il decreto sull’aumento delle tasse che ha scatenato la popolazione. «Tutto si è svolto in maniera spontanea manifestando il volere del popolo. I nostri ragazzi hanno usato la rete per coordinarsi e scendere in piazza contro un regime che non fa il bene del Kenya. Cambiare una legge non può e non deve bastare, il tempo di Willam Ruto alla guida del Kenya è finito!».

 

Il martedì e il giovedì restano i giorni della protesta in Kenya e sui social continuano a rimbalzare gli appuntamenti che vedono Nairobi come centro principale, ma che coinvolgono tutte le principali città e soprattutto Mombasa, la roccaforte dell’opposizione che alle presidenziali ha appoggiato il vecchio primo ministro Raila Odinga. Il governo di Ruto ha però blindato la grande capitale chiudendo le principali vie di accesso e rimuovendo dalle strade tutti i mezzi pubblici, utilizzati dai manifestanti per raggiungere le aree di raccolta. Le auto private vengono fermate e perquisite dalla polizia che arresta e porta via chi cerca di avvicinarsi al distretto economico.

 

 

Edwin Sifuna è senatore e segretario generale del Movimento Democratico Arancione, la principale formazione politica di opposizione e attacca a testa bassa il governo. «Voglio condannare con tutte le mie forze i rapimenti di cittadini che la polizia sta conducendo da giorni. Si tratta di rapimenti e non di arresti, perché non hanno commesso alcun reato e vengono sequestrati senza che le famiglie sappiano nulla di loro. Stando alle informazioni da noi raccolte più di 50 persone sono scomparse durante le manifestazioni, chiunque fosse ritenuto un leader delle proteste. Sono uomini della polizia segreta che rapiscono liberi cittadini e il governo di Ruto non ha nemmeno il coraggio di assumersi la responsabilità di questi gravissimi atti che sono contro la costituzione. William Ruto ha provato a prendere le distanze dalla violenza, dagli omicidi e dai rapimenti che abbiamo vissuto in questi giorni, ma noi vediamo le sue mani sporche del sangue dei nostri compatrioti. Il Movimento Democratico Arancione di cui mi onoro di far parte resterà accanto ai giovani che protestano, noi ascolteremo le proposte del governo, ma non scenderemo a patti con chi si è reso protagonista di questa violenza e che ha tolto la vittoria in maniera fraudolenta a Baba Odinga. Voglio anche aggiungere che la Generazione Z si è guadagnata il nostro rispetto per la sua organizzazione e anche per la capacità di raccogliere fondi per curare le persone ferite negli scontri».

 

Le trattative politiche però non si fermano e governo e opposizione hanno deciso di formare un comitato congiunto per trovare un accordo. Ma anche se la politica ha ripreso a parlarsi sono le piazze e le strade che restano protagoniste in Kenya. Judie Kaberia è una giornalista molto nota in patria, direttrice dell’Associazione delle Donne dei Media in Kenya e docente presso l’Università di Leicester in Gran Bretagna. «Questa è una protesta face-less (senza volto) perché non esistono leader o capi, è il popolo che parla, sono i giovani che vogliono dire basta, perché quando è troppo, è troppo. Per questo motivo per la vecchia politica sarà molto difficile fermare questo moto di cambiamento. Tutto nasce dalle promesse tradite, in campagna elettorale quando Ruto aveva illuso i più giovani che lo avevano seguito in massa. In questi giorni abbiamo visto anche la Chiesa recuperare il suo ruolo. In Kenya i cristiani sono oltre l’85% della popolazione, ma troppe volte la Chiesa si era fatta usare dai politici. Willam Ruto aveva esasperato questo rapporto facendo dei luoghi di culto dei pulpiti elettorali. Quando i giovani manifestanti sono stati attaccati dalla polizia hanno cercato rifugio nella cattedrale di Nairobi, ma non è stato rispettato nemmeno quel luogo sacro. Oggi la Chiesa ha preso le distanze da Ruto e si è riavvicinata al suo popolo. Il presidente del Kenya adesso è solo e deve lasciare, non ci sono alternative. Deve dimettersi e nominare il vicepresidente per un percorso elettorale che dia la parola ai kenyans, soprattutto ai giovani che stanno combattendo pacificamente per la democrazia». Judie Kaberia guarda oltre la lotta che stanno portando avanti i suoi connazionali e si rivolge al mondo. «Sono profondamente delusa dal silenzio internazionale che ha avvolto gli omicidi dei giovani keniani. Molti Paesi hanno accettato l’etichetta di criminali che il governo ha attaccato addosso a chi chiedeva soltanto diritti. Il mondo deve comprendere come l’Africa e il Kenya siano cambiati profondamente. In questo movimento così spontaneo, puro e autentico, io vedo il nostro futuro».

 

Il Kenya resta una potenza regionale, uno dei Paesi più importanti della turbolenta area dei Grandi Laghi e il suo ruolo è strategico. Nella sua storia non ha mai conosciuto un colpo di Stato e in Africa questo è un dato particolarmente significativo. Nairobi è ancora fortemente legata al blocco occidentale, nonostante la serrata corte di Pechino che ha investito nella ristrutturazione del porto di Mombasa. Joe Biden ha incontrato William Ruto a fine maggio ribadendo la stretta alleanza fra i due Paesi e rinnovando cooperazione militare ed economica. Il Kenya, su richiesta americana, ha inviato un contingente di polizia ad Haiti per arrestare la violenza e Washington farà pressioni sul Fondo Monetario Internazionale per un nuovo prestito. Sulle rive dell’Oceano Indiano si gioca un’importante partita geopolitica che l’Occidente rischia di perdere se non ascolterà le richiesta di una società africana che è profondamente cambiata.