La costruzione è sullo sfondo, non necessaria: il guadagno vero è nel percorso e non nella realizzazione. La protesta della rete No Ponte: parti della Sicilia non hanno accesso continuo a un bene essenziale come l’acqua e manca un piano che investa sulla prevenzione degli incendi

Il 10 agosto la comunità militante della rete No Ponte ha indetto una manifestazione per la chiusura della società Stretto di Messina Spa sotto lo slogan «vogliamo l’acqua dal rubinetto, non il ponte sullo Stretto!»

Per la rete No Ponte è essenziale sottolineare qualcosa che è plasticamente evidente: parti della Sicilia non hanno accesso continuo ad un bene essenziale come l’acqua e necessità di un piano «che fermi questa emorragia» e che investa sulla prevenzione degli incendi. 

 

Per esempio, la settimana scorsa a Messina la distribuzione idrica razionata e alternata ha riguardato decine di migliaia di cittadini in diversi quartieri della città. L’accesso all’acqua è «ovviamente un simbolo: potremmo parlare di scuola, di sanità, di servizi», dice l’attivista No Ponte Luigi Sturniolo: «Il ponte non é un’infrastruttura ma un dispositivo politico-finanziario». Infatti, dopo una sorta di pausa della propaganda sul ponte dal 2013 a fine 2022, è ripresa la «colonizzazione ad ogni costo dell’immaginario comune, come se il ponte sullo Stretto fosse l’unica possibilità per noi». La rete No Ponte sottolinea che bisogna tenere a mente che si può fare la reviviscenza del contratto anche perché i governi precedenti (anche quelli che ora si oppongono all’opera) non hanno liquidato Stretto di Messina Spa. Per questo la battaglia si concentra molto intorno alla chiusura della società concessionaria: senza la società salta tutta l’operazione. La diatriba «ponte sì, ponte no» la avvantaggia poiché allunga i tempi e facilita quello che gli attivisti definiscono «iter spezzatino» in cui si può procedere con i cantieri senza avere ancora un progetto esecutivo. L’operazione Ponte è infatti una procedura nella quale la costruzione è sullo sfondo e, in realtà, non è neanche necessaria: il guadagno vero è nel percorso e non nella realizzazione. Chi appoggia l’opera ha a cuore che il progetto continui ad esistere per costruire consenso, produrre azioni, avvantaggiare le filiere e le società di costruzione.

 

Sembra intrinsecamente culturale il “benaltrismo” italiano del «c’è sempre qualcosa di più importante di cui occuparsi» e, tuttavia, nel caso del Ponte il governo sembra non riuscire a dare una priorità alle esigenze (di sopravvivenza, neanche di benessere) dei territori.

 

Ci sono una serie di domande sospese e volutamente ignorate nel dibattito pubblico intorno al ponte sullo Stretto di Messina. Prima tra tutte, e puramente di natura economico politica: qual è la previsione di aumento di ricchezza della Sicilia con questo ponte? Poi: chi si arricchisce e perché? Se qualche ingegnere e politico si diverte a battere i piedi sul punto nevralgico tettonico del Mediterraneo, per sentirsi di aver superato i limiti della scienza o dell’ingegneria, che faccia pure, ma, forse, che si superi a casa sua?

 

Inoltre, la macchina repressiva che in tutta Italia tenta di divorare, da decenni, chiunque si opponga ad opere inutili ovviamente arriva anche in Sicilia con il Ddl sicurezza. Lo scopo non è solo quello di reprimere i militanti della Rete (che non si fermano per un aumento di pena), ma tutta la società civile che ha a cuore il destino del territorio a cui appartiene. Si cerca di emarginare chi è in lotta da decenni dipingendo come «radicale» qualunque tipo di contestazione. Vent’anni di opposizione all’opera non si fermeranno per un decreto o l’intensificarsi della propaganda: si resiste finché non ci sarà «una bandiera no ponte su ogni balcone».