La doppia amministrazione straordinaria è costata 10 milioni di euro solo per gli emolumenti dei vertici, a cui vano aggiunte le consulenze. E il piano di vendita rischia di spezzettare l'azienda

È di destra e si dichiara liberista, eppure per l'ex Ilva, questo governo ha operato la più grande e costosa nazionalizzazione che si sia vista in Italia da decenni. Per carità, il ministro Adolfo Urso è stato praticamente obbligato a tagliare i ponti con i franco indiani Arcelor Mittal, entrati in Ilva nel 2017, privi dei presupposti commerciali e industriali per risollevare la siderurgia tarantina. Fin dall'inizio le cassandre dicevano che Arcelor volesse solo accaparrarsi l'elenco clienti di Ilva ed eliminare un concorrente. Obiettivo raggiunto, se si considera che gli impianti sono stati distrutti e la capacità produttiva è di 1,6 milioni di tonnellate annue: un decimo di quanto era in grado di fare ai tempi dei Riva e un sesto del volume minimo per il pareggio di bilancio. Ogni tanto serve ricordarlo, che quella del commissariamento di AdI (Acciaierie d’Italia) è stata una buona intuizione del ministro del Made in Italy, forse l'ultima, perché da allora si naviga in acque inesplorate.

 

In termini di costi per lo Stato, il commissariamento Ilva è paragonabile a quello Alitalia per il massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali e per gli stratosferici costi di gestione. I commissari che si sono alternati in Ilva e AdI – Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba (2015-2019); Antonio Lupo, Francesco Ardito e Alessandro Danovi fino al 2023; e ancora Alessandro Danovi, Daniela Salvi e Francesco Di Ciommo oggi in carica in Ilva; più Giancarlo Quaranta, Giovanni Fiori e Davide Tabarelli per AdI in amministrazione straordinaria – sono costati complessivamente più di 10 milioni di euro in parcelle. Poi c’è il prezzo delle consulenze: solo per gli incarichi stipulati tra marzo e maggio del 2024 da AdI in amministrazione straordinaria, se ne sono andati altri 3,5 milioni. Per la sola comunicazione, affidata allo studio Comin&Partner, l'investimento è di 120mila euro l'anno. Lo studio Comin è lo stesso che si sta occupando della comunicazione del piano di rilancio del sito siderurgico di Piombino che vede coinvolte l'ucraina Metinvest (in corsa anche per l'ex Ilva) e la friulana Danieli.

 

Nei piani del ministro Urso, il commissariamento dovrebbe durare ancora poco. Infatti a fine luglio è stato pubblicato il bando per la vendita in tandem dei beni Ilva e dell'expertise di AdI, nel tentativo di risolvere entro l'anno quel che da 14 anni, cioè da quando la magistratura ha messo sotto sequestro gli impianti per disastro ambientale, nessuno è mai riuscito a risolvere. Il dubbio che, anche stavolta, la pezza sia peggio del buco c’è. Ad esempio, nel bando di luglio si fa esplicito riferimento alla possibilità di cedere l'ex Ilva a pezzi: cosa che di sicuro metterebbe di traverso i sindacati, che hanno più volte evidenziato la necessità di mantenere unito l'intero gruppo. In effetti, dei sei pretendenti che hanno visitato gli impianti, nessuno è interessato a farsi carico di tutta la baracca: Marcegaglia e Sideralba puntano ai tubifici di Genova, Salerno, Novi Ligure e Racconigi; gli ucraini di Metinvest, gli indiani di Vulcan Green Steel e gli altri indiani di Steel Mont sono interessati soprattutto alla produzione di bramme in capo agli altiforni; mentre è improbabile che arrivi un'offerta concreta dalla canadese Stelco, perché da pochissimo entrata nell'orbita degli americani di Cleveland-Cliffs per 2,5 miliardi di dollari. Ed è altrettanto difficile un ingresso del cremonese Arvedi, già indaffarato nel raggiungimento di un difficile accordo di programma per le Acciaierie di Terni. A bloccare l'intesa l'umbra è il costo dell'energia: la commissione Ue non accetta un prezzo “di favore” sul costo dell’energia per la produzione di acciai speciali di Terni e chiede di lasciar fare alla libera contrattazione tra Enel e Arvedi. Infatti, sulla base delle regole di mercato, quell'accordo di programma non è ancora partito.

 

Il segretario Iulm Rocco Palombella

 

L'esito migliore della doppia procedura di vendita per l'Ilva e AdI, nella testa del ministro, è quello di accoppiare Metinvest e Arvedi, i primi facendosi carico dell'area a caldo e degli altiforni, i secondi investendo nella realizzazione dei forni elettrici, da alimentare con la tecnologia Dri (Direct reduced iron), che consente di realizzare acciaio da preridotto, con impianti alimentati a metano. Una strada in salita, anche questa, perché Taranto non possiede una grande quantità di metano: servirebbe un rigassificatore, che i tarantini – già alle prese con il mostro ecologico Ilva e con la raffineria dell'Eni – probabilmente non gradirebbero. Tanto più che uno dei punti fondamentali del bando di gara prevede una compensazione per la città: un rigassificatore non è esattamente una compensazione.

 

Nel giro di tre mesi i commissari di AdI Quaranta, Fiori e Tabarelli, hanno ridotto fortemente gli obiettivi. Ad aprile il piano industriale prevedeva 2 forni elettrici, il riavvio dell'Afo 2 a settembre, il rifacimento dell'Afo1 entro l'anno, una produzione di 8 milioni di tonnellate entro il 2025. Progetto parecchio ambizioso che ha convinto l'Ue a concedere un prestito ponte da 320 milioni. Tuttavia il tasso di interesse dell’11,6% (un aggravio da 32 milioni l’anno) dice che la stessa Commissione non ha creduto fino in fondo al progetto.

 

Tant’è che il secondo piano di ripartenza, presentato a luglio dagli stessi commissari – da finanziare con i 320milioni dell'Ue, più 300 milioni presi dal patrimonio destinato di Ilva in amministrazione straordinaria (da usare esclusivamente per l'ambientalizzazione) – è stato ribattezzato «piano di discesa», dal segretario della Uilm, Rocco Palombella: «Nel nuovo piano risulta evidente che gli investimenti – i forni elettrici e il Dri – dovranno essere realizzati dagli imprenditori che decideranno di puntare sulla siderurgia tarantina, mentre i fondi a disposizione serviranno solo per la manutenzione straordinaria e per concludere il piano di ambientalizzazione, rimasto incompiuto per un terzo». L’obiettivo non è più quello di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio, bensì 4. I 620 milioni serviranno in parte (172milioni) a garantire i crediti di 114 fornitori strategici usciti dalla procedura concorsuale e compensati all'80 per cento delle fatture mai pagate dall'AdI, grazie a un sistema studiato insieme alla società pubblica Sace. Questi fornitori strategici dovranno ora occuparsi della manutenzione degli impianti, fortemente danneggiati. Altro denaro servirà per l'acquisto di ricambi, batterie, edilizia ordinaria, i ricambi per gli altiforni, manutenzione straordinaria dei convertitori dell'acciaieria, acquisto delle protezioni elettriche per il revamping della centrale elettrica, pompe, valvole, guarnizioni e tutto ciò che la gestione ArcelorMittal, affidata al manager Lucia Morselli, aveva lasciato in secondo piano. «I commissari si sono resi conto che, come diciamo da tempo, senza la manutenzione ordinaria l'impianto si blocca. Ad aprile avevano promesso di rifare gli altiforni in tempi record, a luglio hanno affermato che il piano industriale non sarà realizzato dalla procedura, ma sarà fatto dal nuovo acquirente».

 

Il ministro Adolfo Urso

 

Parallelamente corre l'inchiesta giudiziaria della procura di Taranto in mano ai pm Francesco Ciardo e Mariano Buccoliero, che somiglia sempre più all'indagine Ambiente Svenduto, dalla quale è scaturito il maxi processo sulla gestione dei Riva e che ha portato a sequestri milionari. Gli investigatori, partendo dai picchi di benzene, hanno contestato il reato di truffa ai danni dello Stato in relazione alla presunta falsificazione dei dati per ottenere quote di emissione di CO2 gratuite. Nell'inchiesta sono indagati l'ex amministratore delegato di AdI, Lucia Morselli, insieme al suo segretario Carlo Kruger, alla consulente di Pwc Sabina Zani, i direttori Vincenzo Dimastromatteo e Alessandro Labile, i procuratori Francesco Altiero, Adolfo Buffo e Paolo Fietta, oltre ad Antonio Mura e Felice Sassi. A Morselli viene contestato anche il reato di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale e all'inquinamento ambientale per gli scarsi livelli di manutenzione degli impianti che avrebbero aumentato i livelli di inquinamento. Tutte questioni già sollevate da membri del cda in una lettera del febbraio 2022 inviata al presidente del consiglio Mario Draghi: «Anche nel 2022, in una condizione di mercato senza precedenti, per via di una domanda eccezionale di acciaio, AdI ha prodotto in perdita, vendendo i prodotti addirittura sotto al prezzo di riferimento», parole gravi che implicano irregolarità, tutte da verificare. La lettera prosegue evidenziando «gravi danni apportati all'Afo 4, che hanno a cascata compromesso l'Afo 1 e 2» e poi: «AdI, non avendo alcun attivo, si è finanziata attraverso il mancato pagamento di alcuni fornitori, che sono esposti per molte centinaia di milioni di euro. Potrebbero esservi passività rilevanti non acclarate e un onere di decine di milioni di euro legato al mancato riconoscimento di quote monetarie gratuite sulle emissioni di Co2 per non aver raggiunto l'obiettivo nel 2019 sotto la gestione ArcelorMittal». Ora l'azione dei pm sta portando altri manager e dipendenti a parlare, racontando sperperi, generose buonuscite e irregolarità. L’ex amministratrice, nel tentativo di difendersi, avrebbe presentato un esposto alla procura di Milano per fuga di notizie e accesso abusivo al sistema informatico.